Senza suono

Esiste un luogo senza nome, nella tasca interna della città, che solo poche anime conoscono. Non ha insegne, perché ha la presunzione di confondersi con il cielo, e in questo punto del mondo, senza volontà di essere nominato, ogni giorno mi ritiro a bere un caffè… così per elezione.

È lì che talvolta nascono i miei personaggi. È lì che spesso i fantasmi mi vengono a trovare. Ed è sempre lì che mi imbatto in grandi storie. Quando me ne rendo conto, sento un clic nelle viscere, nel cervello, allora le dita si sciolgono e le parole si riversano sul tavolo. Ne sento l’intensità come un filo di cotone sottile spezzato coi denti. Le sento in gola, sotto la lingua.

E ieri, mentre me ne stavo lì a sorseggiare un espresso nel tentativo di ripescare tutte le mie vite dall’anima, ho incrociato di nuovo lo sguardo della Delfica. Sembrava una cortigiana cresciuta nella Delizia del Verginese, in una delle sue tante torre colombaie, come un guardiano di confine, intenta a separare il mondo delle ore dalla sospensione dell’attimo.

“E tu che ci fai qui?”, le chiesi sorpresa.

“Il direttore editoriale mi ha detto che ti avrei trovato qui”, rispose fissandomi con un paio di occhi gialli.

“Non ci credo. È impossibile. Non l’ha mai rivelato a nessuno…”

“Beh, vedi, prima di dirmelo, mi ha spiegato tutte le regole. Poi, gli ho fatto leggere questa lettera. Gli ho detto che era per te. Solo dopo aver letto il contenuto, mi ha detto che avrei potuto trovarti qui, ma non mi ha specificato come avrei potuto riconoscerti”.

“E quindi come hai fatto?”

“Dai tuoi strali”, mi disse scrutandomi dall’angolo temporale che si portava dietro.

“Che vuoi dire?”

“Hai un silenzio vasto, pieno di bagliori, quel genere di lampi che chiamo ricordi. Solo che tu ti nutri di amnesie. Sono state tutte le vite che ti porti addosso a sussurrarmelo”.

“Uhm…”, mormorai fissando una coltre di foglie gigantesche, gravide di luce.

Il roseto all’esterno della vetrata sembrava muovere polline e respiri, mentre l’odore della pasta di zucchero invadeva nasi e pareti, ma i clienti sembravano troppo assorti dai loro pensieri per accorgersi di qualcosa.

Era quasi sera. Una sera calda, nell’ora che accende un tramonto timido e sfrigola subito dopo, per poi sfumare in un velo cremisi oro.

E mentre parlavo con la Delfica avevo notato l’assenza di voci e di suoni. Nessun rumore proveniva dalla strada. La città sembrava taciturna. Le auto sfrecciavano senza emettere boati.

Eravamo come avvolte da una nube di zucchero filato. Eravamo ovattate o forse avevamo trovato un nuovo modo di cullare le parole. Solo un uomo sembrava aver capito ogni cosa.

Un barbone ci fissava dal vetro con gli occhi vispi e i palmi rigati. Era lì che nascondeva un passaggio segreto per tornare di tanto in tanto nel consorzio umano dove aveva conosciuto l’alfabeto.

Forse, era l’unico in grado di comprendere la nostra mimica o forse era solo un mago con tre verbi magici nella tasca.

“Scrivere, vivere, respirare”, disse sfiatando e guardandomi nelle iridi.

Poi, se ne andò allontanandosi dal vetro smerigliato che frammentava i colori.

“Sai camminare nell’invisibile?”, mi domandò la Delfica riportandomi alla sua realtà.

“Se conosci le regole, dovresti sapere che non posso risponderti. Vivo in completo anonimato e non posso rivelarti nessun dettaglio”.

“Non importa… So che lo sai fare. Me l’ha detto la Strega. È lei che ogni tanto ti abita dentro, come tutta quella schiera di vite di cui scrivi. Non è così? Io so perché hai un’amnesia, ma quello che non mi è chiaro è: perché non l’hai fermato quando potevi? Perché non hai ucciso il poeta maledetto quando ne avevi il potere?”

“Daresti mai un calcio alla luna? Non sono nata per annientare. Sono nata per far luce, per far leva”.

A un tratto, il ritmo di un vento notturno saturò l’aria.

“Allora raccontami una storia incredibile”.

E così le raccontai una storia e la portai a vedere mille posti segreti, senza neanche muovere un muscolo. Glieli feci vedere tutti negli occhi. Fu così che mi sorrise, allargò le braccia e chiuse le palpebre.

“Tieni”, mi disse.

Afferrai la lettera lievemente. Di colpo, la Delfica si fece pensosa e con una voce modulata che sembrava persuadere persino le colonne, disse: “Leggi”.

Nello sguardo dei sensi che implicava la scelta di un destino irripetibile, c’era un’incertezza vitale: chi avrebbe sparato a chi? Certe risposte era meglio non darsele, ma credimi esiste un bordo di mondo diverso da quello mosso da due dita di fuochi fatui. La tua amnesia è un inno contro l’ignoranza, contro una luna di cartapesta che oscilla dietro una notte di frode. Le canaglie hanno sempre il vizio delle bugie, ma continua a viverti dentro, nel verde degli occhi, nelle lande di grano, assieme alla bambina regina con la corona invisibile e i graffi alle ginocchia. So che hai cambiato vita, lavoro, città e amici. So anche che hai lasciato cadere a terra il blu dell’anima e che ti sei rialzata forte e sorridente. E ora fammi un favore: non includerci nell’oblio. Vai a prendere la regina bambina, da qualche parte, nella mente, senza muoverti e senza parlare. Fai in modo che siano solo le nubi a dettare luci impossibili e a contare i battiti. Non muoverti e non parlare: c’è una schiera di cuori nell’erba alta a riflettere il grandangolo del cielo. Sono miocardi, spasmi. C’è anche il mio lì… C’è anche la mia preghiera: che la musica sia con te.

La strega

“Ora hai capito?”, mi chiese la Delfica.

“Credo di sì”.

“Ti sta chiedendo di non dimenticare tutte le tue vite, di non distruggere tutti i destini che ti trascini dentro. E sai come faccio a saperlo? Perché noi siamo te. La Strega, la bambina regina ed io viviamo in te”.

E dopo aver pronunciato queste parole, sorridemmo all’unisono. Fu come la consegna di un dono tra re.

E in un attimo mi ritrovai a fissarla dalla vetrata, mentre stringeva la mano al senzatetto.

Forse, lo stava accompagnando di nuovo nel villaggio dell’alfabeto o forse aveva deciso di seguirlo per cercare la tana di un coniglio bianco, ma in entrambi i casi fece qualcosa di grandioso: mi restituì le ali.

Tornai a casa nel caramello dei lampioni e con le unghie smaltate di verità. I respiri mi abitavano dentro, come fari piantati nel petto.

Da quel momento, ho conservato il tempo nei silenzi, nella forma dell’anima, per regalare un margine di pace ai passi, alla frenesia del fare.

E quando infilai la chiave nella toppa della porta, sorrisi di nuovo.

Avevo avuto la certezza di una certezza: la noncuranza è sempre pronta a passare sulle macerie dei fatti, a sfoderare addii, a ignorare la miseria profonda dell’accaduto, a glissare occhi e a sovrapporsi al niente come un’onda radio.

E allora, se i mostri, gli adulatori e i falsi poeti non possono entrare nella nostra casa nottetempo, perché già ci abitano, noi possiamo solo scendere in strada ed urlare tutte le nostre vite, perché quando penso al mio dentro, faccio leva sugli incastri, sulle logiche del fuoco; soffio sugli spiriti ribelli e colleziono attimi.

E voi, ogni tanto, tenetemi per mano. Sì, ogni tanto, tenetemi in un sogno.

Le mie vite bussano, i miei destini gridano e il mio cuore corregge sempre gli errori.

 

Racconto tratto da L’appendifiabe, Silvia Casini & La Ragazza con gli Occhi Verdi, Nadia Camandona Editore, Copyright ©