Wonder: recensione

Da che mondo è mondo, il cinema in generale non può fare a meno di quei prodotti emotivi che estraggono il meglio di ognuno di noi, grazie a storie dall’impatto sicuro che magari non si vergognano di spingere il pedale del melenso, anche a seconda dell’argomento trattato; Wonder di Stephen Chbosky, sceneggiatore del recente successo Disney live action La Bella e la Bestia, rientra in questa categoria di prodotti, grazie alla sua trama pregna di umanità e comprensione, a partire dallo spunto iniziale del tutto.

Tratto dal romanzo di successo scritto da R.J. Palacio, il lungometraggio narra di un bambino affetto da uno strano gene, che lo ha fatto nascere con il volto sfigurato; lui è August Pullman (il piccolo Jacob Tremblay di Room), detto Auggie, che per via del suo aspetto ha sempre dovuto fare tutto in casa, anche apprendere la scuola materna, cosa di cui si è sempre occupata sua madre Isabel (il premio Oscar Julia Roberts).

Per nascondere il suo volto il bambino usa solitamente un casco da astronauta, un modo per non far sì che ogni suo coetaneo si spaventi, ma quando per lui arriva il momento di dover affrontare la scuola media, allora giunge anche la consapevolezza che bisogna affrontare determinate paure; su insistenza di mamma Isabel e papà Nate (Owen Wilson), più il supporto della sorella Via (Izabela Vidovic), Auggie entrerà nel mondo scolastico, andando incontro alle conseguenze del caso, facendo nuove amicizie e affrontando addirittura la cattiveria del bullismo.

Ma dopotutto quello che conta non è ciò che vediamo in sé, piuttosto è il modo di vedere determinate cose; questo ci rende quello che siamo.

Da uno spunto che sulle prime sembra essere visto e rivisto in miriadi di pellicole, tra cui Mask – Dietro la maschera di Peter Bogdanovich, Wonder prende vita a modo suo, sfoggiando un’immancabile senso di originalità nella sua forza narrativa e spiazzando totalmente lo spettatore con i vari argomenti affrontati nel mezzo.

Il regista Chbosky mostra mano ferma e decisa nel raccontare la toccante storia di questo bambino al di fuori dal comune, reso alla grande da un Tremblay in parte (aiutato da un trucco altrettanto funzionale), il tutto suddividendo in capitoli l’intero svolgimento, ognuno dedicato ad un determinato personaggio che ruota attorno al piccolo Auggie (la sorella, gli amici); un espediente che rende bene l’idea del tutto e di come a Chbosky interessi innanzitutto parlare a livello sociale piuttosto che incentrarsi sul solo protagonista.

Certo, non si rinuncia a determinate parentesi forzate in Wonder (come quella dedicata al cagnolino di casa o alla Nonna interpretata da Sonia Braga), ma state certi che con il film in questione ci troviamo a che fare con un tipo di prodotto ben calibrato, spinto a far piangere e allo stesso tempo anche a riflettere, che tocca alte corde emozionali; indi per cui, dato il tipo di campo minato a cui andava incontro (il rischio di risultare patetico), non possiamo che considerare l’opera di Chbosky che un vero e proprio gioiello sentimentale, prossimo a divenire un classico del genere e titolo che gli spetterà di diritto, grazie a questo suo modo di raccontare con originalità la storia del piccolo Auggie.

 

Mirko Lomuscio

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