Ricordi e matite colorate

Ci sono momenti che restano incastonati nel tempo, accessibili e fermi come fotografie.

È la notte di un’estate che è arrivata in ritardo ma che finalmente si ricorda, timorosa, com’è che si scalda il cielo, l’asfalto… le persone.

Farfalle, zanzare e formiche con le ali danzano alla luce dei riflettori che illuminano il campo da calcio. Le scalinate sono gremite di persone e l’aria emana profumo di carne arrosto e patatine fritte mentre risuonano le chiacchiere allegre e i fischi dell’arbitro.

Prendo parte per un po’ alla bolgia festante nel centro culturale, che soltanto da pochi anni ha ripreso a colorarsi di vita. Poi mi allontano per fare due passi nel silenzio dei dintorni, su strade che conosco talmente bene da non prestarci più attenzione, solitamente.

 

Stasera però mi guardo intorno passeggiando con calma, finché vedo un edificio che ha sempre il potere di sciogliermi il cuore. È la mia scuola elementare, ancora in piedi, rimodernata, con un cancello colorato che prima non c’era, ma nemmeno serviva.

Attraverso il vialetto in cemento delimitato da siepi curate che soltanto ora riesco a oltrepassare con lo sguardo.

Socchiudo appena gli occhi e i fotogrammi di un’altra vita mi scorrono davanti e tutt’intorno. È l’una in punto, sento il suono della campana, le bidelle aprono le porte e ci salutano con un bacio; mi scaravento fuori, nel marciapiede che gira intorno alla scuola, a correre gare improvvisate con i miei compagni, prima di raggiungere i nostri genitori che pazienti aspettano, regalandoci tre minuti di piena libertà.

Vedo le aule da fuori, ricordo le tende verdi, pesanti, appese ai grandi finestroni con i lavoretti di das ad asciugare nel davanzale, e la porta che dà sui giardini. Ricordo di essere passata fuori dalle inferriate per anni e di aver sempre lanciato un occhio a un albero che cresceva indisturbato. Quando l’ho conosciuto era soltanto un seme, lo avevamo piantato con tutta la classe in una di quelle mattinate dove fuori dai banchi imparavamo comunque qualcosa. Anche lui ci ha visti crescere e andar via, ne ha visti arrivare altri e ora non c’è più nemmeno lui.

Altre volte mi è capitato di entrare proprio nell’edificio che per cinque anni mi ha accolto tra le sue mura materne, generando dentro me l’adulta che sarei diventata, lasciandomi in eredità le fondamenta su cui continuare a costruire, i semi da far germogliare con cura.

Ogni volta che ci metto piede i ricordi mi invadono come folate di vento che portano odori depositati e mai dimenticati: il gesso bianco sulla lavagna, le matite colorate con il gommino per cancellare a un’estremità, penne replay blu e rosse, il detergente per i bagni e l’aroma del caffè proveniente dallo stanzino in fondo al corridoio. L’odore dei quaderni a righe e quadrettoni, del sussidiario pieno di meraviglie da leggere.

Il profumo buono delle maestre, che con tenerezza e severità sono state guide per le nostre menti fertili di bambini, insegnandoci anche come stare al mondo.

Ho sempre pronunciato con orgoglio il nome della mia scuola, istintivamente. E ora con il senno di poi, capisco a pieno il perché.

Vivo in Sardegna, ho fatto le elementari alla scuola Grazia Deledda.

 

Erika Carta

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