Ragazzaccio: recensione

Dopo aver esordito e consolidato la sua carriera di regista con due commedie a loro modo di grana grossa, il demenzial-demente Fuga di cervelli e l’on the road dagli esiti anche ambiziosi Tutto molto bello, e aver proseguito con una operazione di montaggio quale è Super vacanze di Natale e con un documentario come Up&down – Un film normale, l’attore toscano, ex VJ e conduttore televisivo Paolo Ruffini per la sua nuova prova dietro la macchina da presa decide di mettere i piedi per terra, senza cimentarsi in assurde trame tragicomiche in poche parole, e inscena una trama di cyber bullismo cavalcando l’onda del periodo pandemico che abbiamo appena attraversato, un amaro ricordo nel pensiero di molte persone nel mondo.

Con il titolo Ragazzaccio il film in questione si incentra sulla vita di un giovane studente di liceo di nome Mattia, interpretato dall’Alessandro Bisegna già nella commedia In vacanza su Marte, il cui atteggiamento è sempre mal visto da insegnanti e docenti dove studia, data la sua poca indole all’attenzione e all’apprendimento scolastico.

Neanche nel mezzo del lockdown il giovane non intende migliorare i propri orizzonti, comportandosi sempre con notevole distacco, mostrando disinteresse nei riguardi della scuola e degli insegnamenti a distanza a cui è obbligato; in tutto ciò non aiutano neanche i rapporti con la propria famiglia, composta da una madre angosciata dalla pandemia, Cinzia (Sabrina Impacciatore), e un padre medico mai presente in casa, Piero (Massimo Ghini), date le ovvie esigenze sanitarie.

Sullo sfondo di questo contesto Mattia avrà modo di conoscere una nuova parte di se stesso, affrontando nuovi tormenti personali tra l’amore per una compagna di scuola, Lucia (Jenny De Nucci), e il rapporto di crescita con le lezioni del professore Roncucci (Giuseppe Fiorello), cercando seriamente di poter trovare un modo per far svanire il bullo che è in lui.

Con sguardo secco e maggiormente privo di ironia, comunque appoggiato su determinate parentesi ironiche, Ruffini regista si cimenta con Ragazzaccio in un prodotto destinato alle masse dei più giovani, parlando di argomenti scottanti nel loro mondo e narrandoli nel periodo lockdown da COVID-19; e giocando su questi due determinati argomenti questo titolo intende districarsi su due direzioni, traendo una morale sia sul complicato mondo degli studenti odierni, oppressi da crisi familiari e comportamenti inaccettabili agli occhi degli adulti, sia su cosa eravamo e siamo divenuti dopo la lunga pandemia che abbiamo affrontato.

A fronte di tutto ciò se ne accettano le buone intenzioni di Ruffini, il quale intende non prendersi mai gioco dello spettatore mostrando una vena registica puntualmente seriosa e solida quando serve, solcando il contesto sociale con quanta massima credibilità possibile, innanzitutto ambientando l’intero film, salvo sporadiche riprese esterne sui titoli di testa, completamente in opprimenti interni; da un’altra parte invece abbiamo una narrazione che tenta di poggiarsi degnamente al mondo giovanile, intenzionato ad analizzare debolezze e pregi di questo microcosmo, ma mostrando però un risultato che non va oltre un contesto, come dire, “mocciano” (simil Federico Moccia tanto per intendere).

Su tali premesse bisogna dire che Ragazzaccio con poco risulta essere la migliore delle prove registiche di Ruffini, anche perché i due precedenti suoi film non sono proprio visioni sopra la media, sapendo essere didattico come promette però forse meno incisivo su determinati sviluppi, che in conclusione risultano essere sbrigativi e anche fuori luogo (il monologo sul come vivere di fronte al dramma del COVID-19 sembra appartenere ad altro tipo di film); un’opera che per le sue tematiche deve aver convinto la partecipazione di un Fiorello in versione insegnante e di un Ghini sporadico, ai quali si aggiunge una buona performance della brava Impacciatore.

Insomma un “adulto” contorno recitativo che spalleggia a dovere gli attori in erba Bisegna e De Nucci (nota influencer famosa tra i giovanissimi), come anche l’insopportabile contesto studentesco qua descritto, che vive di solo smartphone, tecnologie e invadenti nomignoli.

Mirko Lomuscio