Mi capita una data improvvisa

Mi capita una data improvvisa. Canto accompagnata da una pianista all’interno di uno spettacolo.
Il testo è un romanzo e all’evento è presente anche l’autore.
L’emozione, già forte, raddoppia perché lo conosco e lo stimo.
Adrenalinica come solo in post concerto, ho due fritti misti in mano.
Io, la pianista, la mia amica Giorgia e lo scrittore in questione stiamo improvvisando un bicchiere davanti al mare per brindare allo spettacolo.
Nel frattempo, dall’altra parte della piazza, mio papà che mi ha accompagnato in macchina all’evento, divide con mia mamma un piatto di pasta al pesto.
Il romanziere dice che non sa come tornare a casa.
E’ venuto in treno e si sta facendo tardi.
Io, che non guido neanche il triciclo, faccio due rapidi conti.
Avendo lasciato al fonico il seggiolino del piano ed il leggio, essendo la station wagon omologata per 5, stipando dietro mamma, amica e pianista, papà al posto di guida ed io e lo scrittore al passeggero, dovremmo farcela. Dico, dunque, in modo argentino:
“Scusa, ti diamo un passaggio noi!”

Lo scrittore che non è ignaro di matematica sembra stupefatto dalla somma di un tale carico di passeggeri. Ma un po’ per gentilezza e un po’ per la mia insistenza, accetta imbarazzato.
Ci incamminiamo, in una incredibile fila indiana che vede mio padre in testa carico di sacchetti con cavi, madre ed autore che seguono, e io e le due amiche in fine coda che sghignazziamo.
Ho un vestito modello sirena lungo fino all’asfalto e tacchi 12 nel quale tendo ad inciampare ad ogni passo.
In quel momento qualcosa mi dice che le cose non andranno come vorrei.

Dopo una decina di minuti di cammino, vedendolo un po’ in difficoltà, lo scrittore si accolla i sacchetti con cavi del capo gruppo.
Dopo altri dieci minuti è chiaro a tutti: il guidatore non ha la minima idea di dove abbia lasciato la macchina.
Conduce però la compagnia, con grande calma, in una surreale passeggiata notturna e levantina.
Bofonchia di un bar latteria che ricorda di aver visto accanto al posteggio.
Mia madre cerca di parlare all’autore per distrarlo, ma lui sembra intento a pensare a qualcosa.
Forse se esistano ancora i bar latteria.
Il mio vestito striscia per terra e funziona meglio della nettezza urbana nelle varie creuze.
Troviamo una scala. Di quelle ripide e liguri. Saliamo su uno per volta, perché in due sullo stesso gradino non ci stiamo.
Papà dice: “La macchina è là, lo sento.”
L’autore, data la scalinata ed una certa simpatia maturata per mia madre, oltre ai cavi carica anche la borsa con i vari cambi che teneva lei.
Alla fine della scala c’è un cancello.
Naturalmente, chiuso.
Mia madre ipotizza anche di scavalcarlo, non conscia della pericolosità della situazione.
Ritorniamo giù, ci sono dei vigili e chiedo della fantomatica latteria, ma vestita come alla prima della Scala mi prendono per un’ubriaca o per una pazza e mi ignorano quasi.
Uno strano passante finalmente ci porta ad un’altra scala in salita.
Il nervosismo ormai è altissimo, forse lo scrittore pensa che anche questa sia inaccessibile.
Invece no, è aperta ed effettivamente ci attende la macchina bianca.
Mio padre, per solidarietà maschile, blocca il mio tentativo di sedermi sulle ginocchia dell’uomo, dicendo: “Meglio che davanti ci stia uno solo: lui!”
Sento il sospiro di sollievo dell’autore, ancora stanco dalla salita e spaventato di quello che potrà succedergli.
Reagisco subito e prendo Giorgia, che è una libellula, sulle ginocchia unendomi dietro.

Partiamo, uno strano silenzio rimane fino all’esaurimento delle varie fermate.
Tutti, non solo lo scrittore, immaginiamo una macchina bianca sparata verso chissà quale viaggio intercontinentale.
Mio padre trafficante d’armi, mia madre spia internazionale e noi tre ragazze, che combattiamo contro criminali d’ogni specie con a capo lo scrittore come le Charlie’s Angels.
Giorgia mi dice all’orecchio: “Avrei potuto raggiungere amici che suonavano qui accanto, ma un viaggio così non me lo sarei persa per niente al mondo”

Testo e foto Francesca Lorusso