Isola di neve: recensione

“Una volta spente le luci di Santa Brigida,  sull’isola era calata la miseria e sceso l’oblio. Morta Santa Brigida era morta anche Novembre, come due gemelle siamesi unite dalla stessa roccia che correva sotto il mare”.

Novembre. Un mese, un compleanno o un’isola. Una prigione dove della prigione ne arriva solo lo spettro, che si staglia nel cielo a strapiombo sul mare.

La luce accesa di una cella a Santa Brigida, faro nella notte che continua a perpetrare il buio anche quando l’alba rischiara i tetti delle case.

Neve, una ragazza che porta tra le linee del volto i segni di una vita ingiusta, sul corpo la rudezza dell’isola.

Neve, che non riesce a subire basta, che si crea uno scudo di aggressività e ostile ribellione.

Edith, che si innamora e non smette di cercare.

Edith, con la sua sensibilità tutta d’un pezzo.

Andreas, sfuggito da Dresda, dalla guerra.

Manuel, che scappa da Roma, con la sua testa che lo insegue, non lo lascia in pace, gli sbatte in faccia immagini dai contorni destinati a sfumare.

Andreas, che è stato e non è più, che affida la sua vita a mani forti, inaspettate, non sue.

Una narrazione che parte piano, con una lentezza deviante, che sotto le pagine ruvide nasconde la penna aspra e piena di Valentina D’Urbano.

Sofferenza e amore che esplodono come tempesta in un binomio riconoscibile, al centro del libro, al centro del petto.

E ti innamori, vuoi bene a tutti loro perché Valentina D’Urbano riesce a fare questo.

Li odi, ti affezioni, li vorresti picchiare,  aiutare e abbracciare. Ti mancano e pensi anche ai personaggi dei libri precedenti, perché sono tutti lì, nelle sue parole.

E ora sono anche qui e ti senti svuotata arricchita allo stesso tempo.

“Non è vero che non ha una casa[…]Se lo porta dentro[…]È lei la sua casa”.

 

Erika Carta

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