Everything everywhere all at once: recensione

Il multiverso, la possibilità di vivere più vite possibili in mondi paralleli, è ormai argomento del momento nel campo cinematografico, almeno in quello legato al cinema dei fumetti e mobilitato dal successo dei Marvel movies; ed è proprio reduci dalla fruttuose esperienze avute per conto di questa casa di produzione che i fratelli Anthony e Joe Russo, registi tra l’altro degli ultimi due ricchissimi capitoli di Avengers, decidono di mettere mano in campo produttivo ad un’opera tutta nuova, sfruttando il discorso dei mondi paralleli che condividono diversi spazi nel tempo e nell’universo, con singole persone portate a vivere più esistenze possibili.

Per la regia dell’accoppiata Daniel Kwan e Daniel Scheinert, i quali solitamente usano firmarsi Daniels e che come loro opera prima troviamo il singolare Swiss Army Man – Un amico multiuso, ecco quindi spuntare il fantasioso Everything everywhere all at once, un film indefinibile che parla della faticosa esperienza esistenziale di una donna cinese trapiantata negli Stati Uniti; interpretata dalla Michelle Yeoh de La tigre e il dragone e Agente 007 – Il domani non muore, Evelyn Wang gestisce una lavanderia in una città americana, assieme al marito Waymond (Ke Huy Quan) e alla figlia Joy (Stephanie Hsu), prendendosi cura anche dell’anziano padre Gong Gong (James Hong) e portando quindi dietro a sé le complicazioni di ogni giorno, soprattutto dei suoi rapporti difficili con l’esistenza che vive.

Un giorno, mentre è a discutere con la dipendente dell’agenzia delle entrate Deirdre Beaubeirdre (Jamie Lee Curtis), Evelyn scopre che il suo nome è legato ad un destino ben più importante di quel che sembra, venendo a sapere di una lotta da combattere con l’aiuto delle sue svariate personalità sparse nell’universo, una lunga corsa contro il tempo che la metterà faccia a faccia con le soluzioni del suo piccolo mondo circostante.

Al cinema di storie fatte da universi paralleli e multiversi ne abbiamo già viste, da titoli action come The one di James Wong a Cloud Atlas delle sorelle Wachowski e Tom Tykwer, per non parlare del nostrano Stefano Quantestorie di Maurizio Nichetti dei primi anni ’90; quindi dire che l’argomento è stato già ben analizzati in altri contesti è dire poco, ma con Everything everywhere all at once i Daniels si prendono la briga di volerlo portare in un ambito più intimista, narrando dei dilemmi di una donna orientale, interpretata dalla volenterosa Yeoh (qua anche produttrice esecutiva), con fare ricco di creatività e voglioso di non ripetersi in ambito.

Perciò l’opera, di minuto in minuto, avanza gettando azione sfrenata alternata a ironia sopra le righe, gestendo un ritmo trainate che porta lo spettatore nel mezzo di un lungometraggio che sa cosa voler dire, come anche sa come sorprendere a riguardo; ma a parte questa nota positiva, Everything everywhere all at once ha anche la pecca di ripetersi in più di un frangente, col rischio di risultare ridondante e inutilmente ambizioso pure, perché d’altronde il film dei Daniels le idee ce l’ha, come anche il buon gusto di utilizzare un cast secondario di originale scelta e per fini cultori di cinema (il riscoperto Quan de I Goonies, il veterano Hong di Grosso guaio a Chinatown).

Nel cast possiamo trovare l’aggiunta di una Curtis divertita e divertente, anche se in fin dei conti troppo sacrificata, ingoiata anch’ella da una morale esistenziale, sì ben accetta, ma troppo onnipresente in queste due ore e passa (!) di visione ricche di creatività come anche di ambizioni fini a se stesse.

Everything everywhere all at once poteva essere un film capace di fare la differenza, ed invece in fin dei conti rimane un prodotto con guizzi positivi e un risultato complessivo che aleggia al di poco sopra la media.

Mirko Lomuscio