Dogman: recensione

Tra le leggende urbane che girano in mezzo alle vie capitoline, quelle periferiche innanzitutto, è possibile trovare la macabra vicenda del “canaro della Magliana”, una parentesi nera che vede nel mezzo di tutto una questione di vendetta, sfociata in una tortura sanguinaria e dagli esiti ultraviolenti.

Tale vicenda ora rientra nell’interesse della macchina filmica, stuzzicando contemporaneamente la realizzazione di due opere di prossima uscita incentrate su questa storia, una diretta dal re degli effetti speciali Sergio Stivaletti, intitolata Rabbia furiosa – Er canaro, l’altra invece sotto la direzione del rinomato regista Matteo Garrone ed utilizza un titolo più internazionale, Dogman, presentata in concorso al Festival di Cannes 2018.

Tornando sui passi di una storia vera sfociante nel noir più intenso, proprio come fece con l’acclamato L’imbalsamatore del 2002, il nostro Garrone decide quindi di raccontare a modo suo la vicenda del canaro, utilizzando un occhio clinico che possa addentrarsi nella borgata protagonista di questo contesto, un micronucleo romano abitante delle coste marittime.

Ovviamente, complice un linguaggio memore del neorealismo più ispirato, a farla da padrone troviamo un volto protagonista appartenente al misconosciuto Marcello Fonte, curioso personaggio visto di recente in Io sono tempesta e fulcro centrale dell’intera trama raccontata in Dogman; qua è Marcello, un tolettatore per cani che vede la sua pacata vita, fatta di piccoli crimini e l’attenzione per la propria figlia Alida (Alida Baldari Calabria), stravolgere nel modo più drastico possibile.

Tutto ciò a causa del bullo di quartiere Simoncino (Edoardo Pesce), un tipo violento e borioso che porta il nostro Marcello al limite della sopportazione, costringendolo a fare scelte estreme ed impensabili, soprattutto per una persona mite e indifesa come lui.

Artista dalla creatività poliedrica, capace di passare da delineazioni sociali come la mafia (Gomorra) e i real tv (Reality) a film di pura fantasia (Il racconto dei racconti), Garrone mette mano al suo Dogman con le migliori intenzioni, descrivendo alla perfezione questa periferia allo sbando fatta di piccoli mercanti e mentalità traffichine, personaggi allo sbando (chiunque, da Marcello stesso a Simoncino, fino ai rimanenti abitanti) vittime di una condizione sociale che li porta ad acquisire determinati atteggiamenti violenti.

Tale descrizione avanza molto semplicemente, senza azzardare a colpi di genio autocompiaciuti ed altri dettagli che avrebbero potuto sviare la storia principale, calcando un salendo narrativo veramente degno di nota e mostrando un confronto di caratteri potenti come quelli interpretati da un perfetto Fonte (figura minuta, buffa ma a suo modo anche minacciosa, con quel tono vocale da folletto) e un intimidatorio Pesce (già rodato in riguardo per la sua partecipazione nel serial Romanzo criminale); Dogman è sorretto da una poderosa regia che descrive una perfetta vicenda sfociando anche nel western, e più la visione avanza più ci si rende conto di quanto Garrone volesse tornare sui passi di un’opera come L’imbalsamatore, voglioso di utilizzare nuovamente un fatto vero per narrare fin dove le debolezze umane possono spingersi.

Forse ciò che più lascia con l’amaro in bocca è la parte conclusiva di Dogman, sbrigativa e smaniosa di tirare le somme, mostrando così al pubblico la sua intenzione di raccontare un’apologia costruttiva, non fine a se stessa, sulla condizione dell’uomo nelle periferie urbane.

D’altronde è pur sempre con l’estro registico di un acclamato autore che ci troviamo ad avere a che fare qua, quindi diversamente non sarebbe potuto essere.

Mirko Lomuscio