“La memoria è lo scriba dell’anima”.
È la frase che Max, l’ebreo, dice a Lisel, la ladra di libri.
“Sai di chi è?” le chiede. “Di Aristotele”.
Che la legga o la guardi in tv, questa storia incanta sempre la mia attenzione.
Sono i libri e le parole, comunque.
E la citazione di Aristotele è arrivata, puntuale, a fermare la corsa di un pensiero che mi girovagava nella testa da un po’.
C’è sempre qualche coincidenza nascosta tra le righe. È come se tutti i lettori del mondo, reali o fittizi, fossero legati da un filo di inchiostro che si sgroviglia all’occorrenza.
Pensavo alla memoria.
Cercavo di capire come funziona scientificamente, in che modo si sviluppa dall’infanzia all’età adulta, come si forma e viene conservato un ricordo.
Ma io e la scienza non andiamo tanto d’accordo.
A me piace tutto quello che potrebbe essere, anche se non è.
Tante volte ho pensato alla memoria come alla scrivania ordinata di una segretaria d’ufficio, con tanti cassetti quanti ricordi. Immagino una me stessa in tallieur, rossetto e occhiali da vista, riempirne qualcuno, aprire, chiudere e talvolta forzare le serrature di questi cassetti; ne ho visti alcuni difettosi schizzare fuori contro la mia volontà.
Oppure, cambiando scenario, mi intravedo in veste di speleologa camminare tentoni nel buio della mia grotta mnemonica. Cerco di illuminare con una torcia i ricordi che mi interessano, gli altri meglio lasciarli avvolti dalle tenebre come sono già.
Ancora, fluttuo evanescente in uno spazio non ben definito tra bolle di sapone e visioni del passato.
Eppure, ho un ricordo che finora non ero riuscita a collocare. Non stava sospeso in una bolla, né ordinato dentro un cassetto e soprattutto aveva in sé così tanta luce da respingere quella di una banale torcia da speleologa.
E poi, finalmente, ho capito.
È un ricordo dell’anima. È scritto, inciso in essa con il pennarello indelebile della memoria.
Mi sono sempre chiesta da dove fosse nato l’amore che in età adulta ho scoperto essere così potente e motivato: quello per i libri.
Ho come delle tappe che reputo fondamentali punti fermi nel percorso che mi ha condotta qui, a riconoscere da lontano l’odore delle pagine e quella sensibilità tutta strana che accomuna le persone che leggono.
La maestra alle elementari che mi ha insegnato a leggere e scrivere andando ben oltre il mero compito di farmi imparare qualcosa solo perché andava fatto.
Un Natale dell’infanzia in cui mi porsero un regalo e scartandolo scoprii che era un libro. Ricordo che rimasi a fissarlo, a rigirarlo tra le mani, incredula e affascinata.
In attesa della prossima estate: letto e riletto, annoverato come uno dei primi libri significativi che hanno lasciato un segno dentro me.
E ancora la professoressa al biennio del liceo che diffondeva la letteratura con cognizione di causa e gli occhi illuminati ogni volta che nominava Pirandello o Thomas Mann, questo o quel titolo. Ora capisco che il riflesso di quella luce è finito dritto nei miei occhi senza andarsene più.
I sabato mattina passati in biblioteca con mia zia, a scegliere quale libro divorare in una settimana, con avanzo di tempo.
Ma il primo ricordo affonda il solco più in profondità, lontano da altre memorie, isolato.
Una perla rara incastonata nell’astratto.
Non so se fosse primavera o autunno, estate o inverno. Non ricordo che ora precisa segnasse l’orologio, cosa avessi fatto prima e dopo. Non so dire da quanti pochi anni sgambettassi nel mondo.
Ricordo soltanto che ero molto piccola, una mano che conteneva la mia, guidava i passi nella piazza in città. Vidi un grande capannone con le tende bianche in plastica lucida, scostammo il lembo che fungeva da porta ed entrammo.
Tutto questo è superfluo, so che più o meno è andata così.
Ma la visione del ricordo in sé dura un battito di ciglia.
All’altezza del mio sguardo si estendevano, disposti a ferro di cavallo, dei banchi affiancati uno all’altro e sopra, una distesa di libri che si perdevano al di là della mia vista.
Non so se successe davvero che divincolai la mia mano dalla presa salda di chi mi accompagnava, eppure sono certa che fu in quel preciso istante che cominciò l’incisione.
La mia anima si srotolava come foglio di pergamena mentre procedevo in punta di piedi, libro dopo libro. La penna invisibile registrava il mio stupore davanti a quella marea di forme compatte, simili ma tutte diverse; il silenzio surreale che si era creato intorno a me, lo sguardo assetato di chi spera che sia un mare senza fine. La sensazione delle copertine rigide sotto i polpastrelli, dei titoli brillanti in rilievo e quell’odore pungente che si era fatto strada nelle narici inebriandole e facendomi stare bene. Ero felice.
Con gli anni, ogni volta che leggo un libro, ascolto una storia, scrivo parole e incontro persone meravigliose che mi sono gemelle in questa passione, sento il depositarsi di una ricchezza senza eguali.
Quella sensazione primordiale è segnata, indissolubile, fa parte di me.
Mi fa lo stesso effetto ancora e sempre, tutte le volte che entro in un luogo di libri. Sento il mio corpo rimpicciolire davanti alla loro bellezza infinita, fino a toccare l’anima nel punto esatto in cui è scritto quel primo ricordo.
Erika Carta
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