Nell’era in cui è ormai lecito ascoltare dei dialoghi immancabili durante la visione di un film, è difficile ricordare quando la settima arte ha dato i suoi natali sotto il segno della sola immagine, facendo a meno di parole e voci, però non di didascalie, e utilizzando la musica come unico canale uditorio.
Poi ci fu l’avvento del sonoro (nel 1927 con Il cantante di jazz di Alan Crosland) e le cose cambiarono ulteriormente, arrivando a quello che ora conosciamo tutti come unico e vero mondo del cinema, parlato, dialogato ed espresso meramente a suon di lunghe battute, pur di far capire il senso di una trama ad ogni spettatore di ogni dove.
Nonostante ciò, c’è però chi nel tempo ha voluto osare e contribuire in riguardo strizzando l’occhio alla sola forza dell’immagine, creando delle pellicole mute anche in epoche non appartenenti a quel cinema che del sonoro doveva fare a meno; vengono alla mente esempi come l’operato di un Jacques Tati tra i decenni ’50 e ’60, oppure titoli come L’ultima follia di Mel Brooks, dove il noto regista omaggiava appunto i cosiddetti “silent movie” (titolo originale dell’opera), o come i “primitivi” Quando i dinosauri si mordevano la coda, Il cavernicolo e La guerra del fuoco, dove si faceva a meno della parola per poter descrivere un’epoca riguardante i fasti della razza umana.
Adesso, addentrandosi dentro ad un genere che aleggia tra l’horror e il post apocalittico, è l’attore e regista John Krasinski (notato in film come In amore niente regole di George Clooney, American life di Sam Mendes e Detroit di Kathryn Bigelow) a dire la sua, realizzando per conto della Platinum Dunes di Michael Bay (per il quale Krasinski ha recitato nel recente 13 hours) un’opera coraggiosa, almeno per quanto riguardo il linguaggio filmico utilizzato, come A quiet place – Un posto tranquillo.
E’ una storia futuristica ambientata dopo un inspiegabile disastro avvenuto nell’intero pianeta, messo ormai in ginocchio da alcune presenze aliene che hanno sterminato l’intera popolazione.
Tra i pochi sopravvissuti troviamo la famiglia Abbott, composta da papà Lee (Krasinski), mamma Evelyn (Emily Blunt) più i figli Marcus (Noah Jupe), la sordomuta Regan (Millicent Simmonds) e il piccolo Beau (Cade Woodward), i quali vagano per il paese cercando di evitare di emanare il minimo suono; infatti, il solo udire un rumore più alto del silenzio circostante potrebbe attirare l’attenzione dei mostri in questione, mettendo a rischio la vita di chiunque si trovi nei paraggi di quella rifrazione sonora.
Anche se reduci da una grave tragedia in riguardo, gli Abbott non si daranno ami per vinti e lottare per un futuro migliore li spingerà al massimo del sacrificio e della lotta personale.
Lungometraggio azzardato, che si muove sui passi della mera costruzione filmica tramite la sola immagine, anche se un paio di dialoghi sono presenti e i sottotitoli fanno il resto quando i protagonisti parlano per gesti, A quiet place – Un posto tranquillo sprizza originalità e degna costruzione ad ogni minuto che avanza, dimostrando come Krasinski sia autore dalle ambizioni acute, però portate ben a compimento in questo suo odierno esperimento rischioso.
Seguendo una linea narrativa che scopre le carte man mano, questa pellicola ha dalla sua una potenza cinetica nel raccontare una storia al di là del verosimile, e lo fa scrutando gli animi dei suoi protagonisti, emblematico nucleo famigliare che oserebbe di tutto pur di ostacolare ciò che potrebbe dividerli, sia metaforicamente parlando che nel vero senso della parola.
Nonché la sceneggiatura presenti delle facilonerie in qualche istante (quella che riguarda un’incinta Blunt alle prese con un mostro su tutte), A quiet place – Un posto tranquillo riesce a difendersi molto bene tirando le somme a fine visione, chiudendo quindi un discorso decorso che strizza l’occhio sia al cinema di M.Night Shyamalan (a parte l’ansiosa situazione apocalittica vissuta, anche il modo in cui vengono sviluppati i rapporti adulti/bambini) che alle produzioni J.J. Abrams (qua si guarda molto a 10 Cloverfield Lane), senza divenire immediatamente una sorta di film-fotocopia di questi due citati autori dalle mentalità molto influenti; e detto ciò bisogna dire, ed affermare con tutta franchezza, che l’opera di Krasisnki ha carattere “di genere” tutto da vendere.
Mirko Lomuscio