Wonder: white bird – Recensione

Da una costola del piccolo fenomeno cinematografico datato 2017 quale è stato Wonder di Stephen Chbosky, lungometraggio tratto da un libro di R.J. Palacio, ecco arrivare in sala un proseguimento di quel titolo, una sorta di spin off che continua non tanto le gesta ma più che altro il discorso morale che si portava dietro il film di Chbosky, creando un filo logico e educativo per i giovani spettatori a cui è indirizzato il racconto in questione.

Sotto la regia bel ben rinomato Marc Forster (Neverland – Un sogno per la vita, Agente 007 – Quantum of solace), questo Wonder: white bird segue le vicende del giovane Julian (Bryce Gheisar), il piccolo bullo che vessava il protagonista dell’opera precedente, qui alle prese con una nuova scuola da frequentare dopo ciò che ha combinato nell’altro istituto; in questo nuovo ambiente cercherà di fare delle scelte specifiche, che lo aiuteranno ad ambientarsi tra i nuovi compagni di scuola.

Ad aiutarlo in tutto questo c’è sua nonna di origini francesi (Helen Mirren), rinomata pittrice riconosciuta nel campo, la quale si appresta a raccontare una propria storia vissuta ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, durante l’occupazione della Francia da parte dei nazisti.

In questo contesto la donna , allora adolescente (Patsy Ferran), fece la conoscenza del compagno di classe Julien (Orlando Schwerdt), un ragazzo obbligato a camminare con la stampella, vessato e preso in giro dagli altri ragazzi della scuola.

Di origini ebree, la giovane e i suoi genitori si vedono oppressi dal regime nazista che comanda sul proprio paese, tant’è che lei stessa dovrà rifugiarsi nel fienile dell’amico Julien, col quale comincerà ad instaurare una forte amicizia fatta di confidenze e viaggi di fantasia, lontani dalla cruda realtà che stanno vivendo e con la forte voglia di sopravvivere a ciò che sta succedendo.

Un racconto fatto di speranza e forza d’animo che una nonna sente di dover tramandare al proprio nipote, per il bene del proprio prossimo e di chiunque altro possa ascoltarla.

Nonostante il precedente Wonder fosse un film di poche pretese e dalle premesse molto semplici, ma con risultati al di là del pensabile, positivamente parlando, questo Wonder: white bird invece all’opposto è un prodotto che di elementi per tirar su un qualcosa di buono li aveva anche, ma sfruttati talmente in modo piatto e anonimo che il film stesso tende a non portare nulla di che al complesso.

Il regista Forster, esperto di un certo cinema emotivamente forte, non si concentra più di tanto e trascina la visione del suo lungometraggio tra luoghi comuni e parentesi già viste in tanti altri titoli incentrati sull’oppressione nazista; un compendio di personaggi, situazioni e risvolti che più di una volta abbiamo visto trattati meglio e che, qua, stancamente, vengono riproposti al servizio di una morale didattica e indirizzata ad un pubblico di giovanissimi, perlopiù scolaresco.

E siccome lo aveva già testato con Neverland – Un sogno per la vita, Forster ripropone anche qua immaginifici viaggi di fantasia lontani dalla dura realtà, mettendo in mezzo l’amore di questi due giovani protagonisti, pedine di tanto patetismo narrativo, a confronto con l’orrore nazista, già abbastanza conosciuto in altri frangenti cinematografici più meritevoli.

Wonder: white bird è un’opera che sa di raffazzonato e tanta improvvisazione produttiva, il tutto confermato innanzitutto dall’apparizione minima di una Mirren qua nei panni di improbabile reduce della Seconda Guerra Mondiale, dato che l’attrice stessa è nata nel 1945.

Mirko Lomuscio