Unsane: recensione

Liquidata la recente esperienza de La truffa dei Logan, il regista Steven Soderbergh torna sui grandi schermi con un nuovo lungometraggio, un’operazione che possa estrapolare la sua vena di sperimentatore che ormai si porta dietro di pellicola in pellicola; con Unsane il regista premio Oscar per Traffic compie un’operazione a budget ridottissimo, circa un milione e mezzo di dollari, e lo fa girando il tutto con un semplice I-Phone, sfruttando così un tipo di visione registica che magari non spesso viene utilizzata nel campo filmico (anche se in passato di titoli girati con un solo cellulare ne sono stati fatti, lo zombie movie Colin in primis).

Il genere trattato in questo caso è il thriller e vede per protagonista una donna in carriera, la giovane Sawyer Valentini (Claire Foy), che di punto in bianco si trova costretta ad essere internata in una clinica psichiatrica, totalmente contro la sua volontà.

Tra queste mura, abitate da infermieri e persone affette da disturbi mentali, ritrova anche una cattiva conoscenza, ovvero un individuo che risponde al nome di David Strine (Joshua Leonard), un personaggio che ha ossessionato Sawyer con messaggi e fin troppe attenzioni, arrivando addirittura a renderla mentalmente instabile.

L’avvicinamento di questo uomo la rende ossessionata e paranoica, scatenando del puro scetticismo in chiunque l’ascolti; ma Sawyer sa qual è la via d’uscita da questa follia ed escogitare un perfetto piano di fuga sarà l’unico dei suoi pensieri.

Soderbergh lo sperimentatore colpisce ancora, realizzando per il vasto pubblico un piccolo prodotto fatto di ambienti limitati e personaggi altrettanto ristretti, in modo da poter stabilire come si possa far cinema anche senza alcun bisogno di grandi mezzi; quello che però non torna in un prodotto come Unsane è il livello di improvvisazione registica che si mostra di minuto in minuto, sfoggiando una storia che parte da una certa premessa (l’attacco alle industrie farmaceutiche e a quelle che curano le malattie mentali) per poi finire in un altro contesto (la parentesi di Sawyer e del suo presunto stalker maniaco), mandando così in malora la coerenza narrativa del tutto.

Seguendo i passi di una protagonista non proprio moralmente esemplare, resa da una Foy calata in parte, Soderbergh sente il bisogno di scandire un personale discorso sul concetto di thriller ad ambiente ospedaliero, tra alzate di tensione e giochetti di suspense, senza rinunciare a quella voglia di minimizzare il tutto tramite l’obiettivo di un semplice I-Phone, dettaglio che dovrebbe fare la sua differenza.

A suo modo Unsane sarebbe anche potuto essere un piccolo esempio di cinema della paura, una sorta di Shutter Island in versione ridotta e a bassissimo budget, ma la sua voglia di voler cambiare registro e spingersi in trame ben più semplici, e non per questo efficaci all’intero svolgimento, lo portano in ambiti che avrebbero fatto miglior figura in un’operazione televisiva, tanto per rendere l’idea.

Qua si ha voglia di parlare di molti argomenti, come quelli succitati del mondo sanitario o del complicato rapporto che c’è oggi tra uomini (stalker) e donne (vittime), ma Unsane non prende mai una direzione stabilita e rimane con l’indecisione di voler mostrare sia un lato d’intrattenimento che impegnato, facendo si che ambedue le cose si sottraggano davanti alla vista di uno spettatore alquanto annoiato.

Non giova al tutto la gratuita presenza di guest star come Juno Temple (è la paziente ricoverata Violet), Amy Irving (è la mamma di Sawyer) e un Matt Damon non accreditato nei panni di un detective, messi come contorno partecipe di un gioco alquanto autocompiaciuto quale è questo Unsane, dimostrando così per l’ennesima volta che Soderbergh è un autore, sì attento alle innovazione della macchina filmica, ma un po’ meno a quelle del mondo dell’intrattenimento.

Mirko Lomuscio