Un sacchetto di biglie: recensione

L’Olocausto, una piaga storica che mai verrà dimenticata e che per ogni occasione il cinema non tarda a parlarne, rendendo così anche il suo contributo alla cosiddetta “giornata della memoria”, in onore ai milioni di caduti ebrei avvenuti per mano nazista.

 

Ed è grazie a titoli come Schindler’s list – La lista di Schindler di Steven Spielberg, La vita è bella di Roberto Benigni e Il pianista di Roman Polanski che la settima arte è riuscita a far rimanere impressa tale tragedia con il giusto sguardo, imprimendo nei suoi spettatori quel degno spirito di conservazione in qualcosa che mai dovrà essere dimenticato.

A questi si aggiunge oggi un film come Un sacchetto di biglie, lungometraggio tratto da un romanzo di Joseph Joff a sua volta ispirato alla vera storia di due fratelli ebrei, sopravvissuti agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, intraprendendo una serie di vicissitudini dovute al grave momento drammatico che hanno vissuto.

Regista dell’opera è il canadese Christian Duguay, autore da poco reduce dalla realizzazione del sequel Belle e Sebastien – L’avventura continua, nonché realizzatore di numerose opere appartenenti a svariati generi, dall’horror (Scanners 2 – Il nuovo ordine, Scanners 3) al thriller (I dinamitardi, L’incarico), dalla fantascienza (Screamers – Urla dallo spazio) all’action (L’arte della guerra), dimostrando la sua poliedricità nel campo registico.

La storia di Un sacchetto di biglie è ambientata nella Francia dei primi anni ’40, dove due giovani fratelli ebrei, Joseph (Dorian Le Clech) e Maurice (Batyste Fleurial Palmieri), si ritrovano a dover attraversare l’intero paese alla ricerca di una salvezza dal terrore nazista, con lo scopo di tornare uniti alla propria famiglia, anch’essa in fuga perenne.

La lunga traversata consentirà ai due di fare nuove conoscenze e di avvicinarsi più di una volta all’amore dei propri genitori, Roman (Patrick Bruel) e Anna (Elsa Zylberstein), ma soprattutto trasformerà entrambi, facendoli ulteriormente crescere di fronte agli orrori della guerra.

Parlare con un film di una vera pagina tragica avvenuta all’ombra dell’Olocausto comporta sempre dei modi e delle chiavi di lettura particolari, preferibilmente utilizzabili nei metodi meno scontati possibili; quello che fa Duguay con il suo Un sacchetto di biglie però non proprio coinvolge in riguardo, limitandosi a raccontare questo vero racconto di vita di una coppia giudea, protagonista in prima persona, con fare monocorde e a tratti televisivo, troppo poco incisivo per quanto riguarda l’argomento.

Non che la cosa sminuisca infine la trama raccontata, che vede questo percorso di crescita pervaso di situazioni e personaggi importanti per i protagonisti (tra cui un dottore ebreo interpretato da Christian Clavier), certo se il ritmo fosse stato più coinvolgente alla fine allora tutto avrebbe avuto una sua degna completezza.

Diciamo che nonostante Un sacchetto di biglie sia un film fatto per “non dimenticare”, riesce ad essere un prodotto facilmente dimenticabile e trascurabile, reo di pervadere nel suo racconto tracce di noia dovute da una regia poco ispirata.

 

Mirko Lomuscio

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