Tanna: recensione

“Il primo film che abbiamo visto nella nostra vita è quello che abbiamo interpretato”.

A pronunciare questa frase è il capo tribù di Yakel del villaggio dell’isola di Tanna nella Repubblica di Vanuatu, arcipelago incontaminato a nord-est dell’Australia.

I documentaristi Martin Butler e Bentley Dean fanno il loro ingresso nel mondo cinematografico attraverso Tanna, primo film di produzione australiana ad essere nominato agli Oscar 2017 e primo in lingua nauvhal. Premiato, inoltre, alla 72. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia Settimana della Critica con il Premio del Pubblico e per la Miglior Fotografia, e agli AACTA Awards con il Premio per la Miglior Colonna Sonora.

Butler e Dean raccontano la storia di due giovani innamorati, appartenenti al villaggio indigeno Yakel,  Wawa, dolce e vivace, e Dain, nipote del capo tribù, costretti a fuggire non potendo vivere liberamente il loro amore, poiché la ragazza viene promessa in sposa al figlio del capo della tribù rivale degli Imedin, come parte di un accordo di pace. La loro fuga, dai risvolti tragici, cambierà profondamente e inaspettatamente la cultura dei vari popoli, aprendo le menti degli abitanti verso libertà interiori finora tenute sopite con lo scopo di preservare tradizioni secolari, e il cui confronto con i nostri Romeo e Giulietta per la palese similitudine è inevitabile.

Ciò che emoziona non è solo la vicenda dei due ragazzi, ispirata a una storia vera avvenuta nel 1987, in cui due giovani furono uccisi per essersi ribellati alle rigide regole dei matrimoni combinati, facendo riflettere su come alcune tematiche non conoscano razza, cultura e tempo, ma anche la scelta da parte dei registi di far interpretare i vari ruoli agli abitanti del villaggio, alcuni dei quali non fanno altro che incarnare se stessi, come lo stregone o il capo tribù Yakel, Capo Charlie.

Attraverso laboratori di recitazione improvvisati, alla popolazione indigena, completamente analfabeta e priva di esperienza cinematografica, vennero impartite indicazioni su come muoversi, facendo attenzione a non forzare e alterare situazioni spontanee che potevano nascere dai sentimenti di stupore e di timidezza da parte degli aborigeni di fronte alla macchina da presa, per loro, del tutto sconosciuta, e che li spinse ad affrontare tabù severissimi, come le effusioni di affetto in pubblico tra uomo e donna, e nel rispetto degli antichi rituali, protetti e tramandati anche a costo della vita.

Ne viene fuori una storia vera e sincera, lo spettatore è totalmente coinvolto dalla vicenda dei due innamorati e dall’isola, la cui maestosa bellezza è esaltata nei minimi particolari dalle immagini di una splendida fotografia, dal deserto ai piedi del vulcano attivo, il monte Yasur, considerato lo spirito madre, al mare cristallino senza tralasciare la rigogliosa e selvaggia foresta.

La natura gioca un ruolo importante: rapisce lo sguardo valorizzando la storia d’amore e a tratti ne diviene protagonista assoluta rubando la scena ai due amanti.

In sostanza, possiamo dire che Tanna è un’opera suggestiva, emozionante e toccante, che ci trasporta in un tempo e uno spazio dove tutto è ancora vergine e puro, con credenze, usi e costumi che solo apparentemente si discostano dalla visione occidentale.

 

Emanuela Giuliani

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