Takara – La notte che ho nuotato: recensione

Show, don’t tell. Tale è la frase che dovrebbe seguire ogni cineasta, anzi, ognuno che vuole intraprendere la carriera del narrare opere di finzione. Questo perché le vere sensazioni non si esprimono tramite parole, ma immagini. Esistono ben poche pellicole capaci di riuscire in questo intento, soprattutto in questi ultimi anni, con film mainstream ricchi d’azione e pathos, ma fortunatamente questo film, proiettato alla settantaquattresima Mostra del Cinema di Venezia, è tra questi.

Nato da una collaborazione tra il francese Damien Manivel e il giapponese Kihei Igarashi, Takara: la notte che ho nuotato è un’immagine in movimento, un’introspezione visiva delle sensazioni e del viaggio di un bambino.

Il giovane Takara, nome non citato ma intuito dal titolo, mentre suo padre lavora al mercato del pesce, è solo in casa, con i suoi cari oggetti a fargli compagnia, tra i quali una macchina fotografica, che usa in continuazione. Spinto dalla monotonia causata dall’assenza del padre, costretto a lavorare in orari che gli impediscono di stare col figlio, Takara decide di saltare la scuola e viaggiare per la città, interagendo con tutto ciò che gli sta intorno. Distese di neve, supermercati, auto, stazioni, ristoranti, il tutto mentre le sue espressioni mute ma significative scandagliano queste esperienze, quasi fosse una reinterpretazione di L’Uomo che Cammina di Jiro Taniguchi, ma molto più giovane e privo di parole.

Un racconto leggero, come le note della Primavera di Vivaldi che aprono e chiudono l’intera vicenda, senza stravolgimenti di trama o grandi twist, solo il viaggio interiore di un personaggio di cui sappiamo poco, ma che tanto basta per raccontare una storia. Tre atti racontati attraverso gli occhi innocenti di un bambino, ritrattati a immagine come nella sua macchina fotografica, segno evidente di quanto l’immagine sia più potente della parola. Altro elogio all’immagine è il disegno che il bambino fa per suo padre mentre lui è via, come se volesse comunicargli ciò che prova per lui tramite un semplice foglio di carta colorato. Oppure anche l’interessante scelta del rapporto d’immagine 4:30, come i primi lungometraggi muti.
Le inquadrature sono lunghe, le azioni si prendono il loro tempo, con tagli di montaggio assenti o ridotti al minimo, i cui soli suoni presenti sono i rumori di sottofondo, o la già citata Primavera.

Un film sperimentale che colpisce, un piccolo tesoro come significa anche il nome Takara in giapponese, che vale la pena di essere scoperto.

Andrea De Venuto

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