Suspiria: recensione

Per lungo tempo si è parlato di realizzare un remake di uno dei capisaldi dell’horror italiano, cioè Suspiria del maestro del brivido Dario Argento; un tira e molla continuo che alla fine sembrava dovesse affidare il timone di regia al David Gordon Green di Strafumati e Stronger – Io sono più forte.

Ma dopo che quest’ultimo ha deciso di abbandonare il progetto, dedicandosi in seguito al riavvio di Halloween di John Carpenter, ad averla vinta è stato il nostro Luca Guadagnino, mentore e fautore di questa operazione di restyling, dato che sin da subito si sarebbe occupato della produzione.

Quindi, dopo aver conquistato Hollywood a suon di Oscar con Chiamami col tuo nome, il regista di Melissa P. mette mano a questo remake con tutta l’immaginazione possibile, coinvolgendo in questo rischioso lavoro lo sceneggiatore David Kajganich, che per l’autore italiano aveva già steso lo script di A bigger splash, e prendendo nel cast chi più di meglio potesse venirgli in mente per descrivere l’universo malsano appartenente all’Argento di 40 anni fa e passa; Dakota Johnson, Tilda Swinton, Mia Goth e Chloe Grace Moratz sono i nomi che hanno deciso di avventurarsi in questa avventura horror, con la responsabilità di riuscire a tener testa all’atmosfera degna di nota che Suspiria remake dovrebbe regalare.

La storia è ambientata nella Berlino del 1977, quella del muro si intende, e nella prestigiosa accademia di ballo appartenente alla famosa Helena Markos arriva la nuova allieva Susie Bannon (Johnson), una ragazza che si addentra in questa scuola con l’intenzione di voler conquistare la vetta del successo.

Il suo talento non passa inosservato e le istruttrici, tra cui Madame Blanc (Swinton), notano subito in lei le doti giuste per potercela fare, standole perennemente con gli occhi addosso.

Ma ciò che succede tra quelle mura non è solo consono al mondo della danza, perché entità diaboliche e magie secolari si annidano tra le stanze del luogo, abitato da sempre da streghe dedite al culto sacro di rendere onore al potere della malvagia Markos.

Alle prime immagini, le premesse di Guadagnino saltano subito all’occhio, se confrontate poi col caposaldo argentiano; fotografia, a cura del tailandese Sayombhu Mukdeeprom, dai toni spenti e quindi ben lontana dagli accesi colori testati dall’ispirato Luciano Tovoli del Suspiria originale, ed ambientazione condensata in un periodo storico critico, nel pieno del terrore gestito dalla banda Baader Meinhof, per dare quel qualcosa in più, magari maggiormente realisitico, rispetto al prototipo di ispirazione.

Due elementi che devono aver fatto pensare che la direzione era quella giusta da prendere, senza però prendere bene in considerazione una cosa; che il film del 1977, in realtà, oltre ad essere un horror spaventoso, era in primis una fiaba nera raccontata col gusto del macabro degno di Argento.
Guadagnino evidentemente alle fiabe (nere) non ci crede e pensa di fare di Suspira 2018 un trattato filmico sul mondo della danza, prendendo un contesto degno di Bob Fosse e trasformandolo in un incubo ben contestualizzato, inserendoci streghe e incantesimi diabolici un po’ a buffo, anche azzeccando un paio di scene in verità (il primo omicidio che avviene in contemporanea ad un ballo della Johnson, la sorpresa della Goth nella soffitta della scuola).

Ma arriva alla conclusione con in mano un lungometraggio tronfio del suo ego da regista (cosiddetto) impegnato e svia la trama stregonesca con qualche riferimento di troppo alla storia umana, vittime di guerra in primis (tutta la faccenda dell’anziano Josef Klemperer, interpretato inspiegabilmente, sotto pseudonimo, da una Swinton camaleontica), giusto per far sembrare il tutto qualcosa di più del semplice horror (senza però privarci di una comparsata di Jessica Harper, protagonista del prototipo argentiano).

Infatti di horror propriamente non si tratta questo Suspiria, anzi, sarebbe dovuto esserlo se solo ci si sarebbe impegnati su un’atmosfera più magica e su una trama meno ambiziosa, però si è decisi di allungare il brodo con qualche nozione di danza e di arrivare così a due ore e mezza di durata nel modo più gratuito possibile, capitolando con un epilogo che manda in vacca anche quel poco di spaventoso c’è stato durante la visione.

Era prevedibile che andasse così d’altronde, ma solo perché non hanno capito l’importanza del credere in una fiaba nera/horror raccontata dal cinema.

Mirko Lomuscio