Senza lasciare traccia: recensione

Una delle poche realtà in ambito di regia tutta al femminile presente ad Hollywood, Debra Granik, dopo essersi fatta notare nel lontano 2010 con l’osannato Un gelido inverno (pellicola che consacrò una giovane Jennifer Lawrence), torna ora sui grandi schermi con la sua opera cinematografica numero tre, traendo ispirazione da un romanzo di Peter Rock, intitolato My abandonment, a suo tempo ispirato ad una storia vera divenuta poi leggenda, avvenuta in Portland, nell’Oregon; con Senza lasciare traccia, quindi, la nostra attenta autrice utilizza il suo occhio, nato per scrutare negli animi umani, a favore di un racconto ambientato nei meandri di alcune terre site ai bordi della civiltà che conosciamo.

Servendosi dei volti del Ben Foster di Mechanic – Professione assassino e della giovanissima Thomasin McKenzie vista in Lo hobbit: la battaglia delle Cinque Armate, la Granik filma l’esistenza di una coppia agli antipodi, padre e figlia, nascosta nei boschi di una natura selvaggia del Nord America.

Loro sono il reduce di guerra Will (Foster) e l’adolescente Tom (McKenzie), le cui scelte vitali li portano a dover trascorrere la propria esistenza come dei primitivi, dormendo dentro delle tende ed evitando il contatto con la civiltà che li circonda, salvo sporadiche situazioni.

Un giorno però le autorità scoprono la loro posizione e una volta catturati i due verranno messi in custodia da un’assistenza sociale, il cui scopo sarà quello di reintegrarli nella vita comune.

Solo che Will e Tom non sentono di appartenere a nessuno e girovagare in cerca di un posto degno della loro presenza, lontano da tutti, sarà il primo dei pensieri.

Opera che vive di un forte intimismo nei confronti dei suoi due protagonisti, Senza lasciare traccia ripercorre la strada già battuta da altre pellicole che mettevano faccia a faccia l’uomo con la natura (Into the wild – Nelle terre selvagge, La foresta di smeraldo) ma sviscerando da dentro un metaforico percorso di crescita pare/figlia, il quale infine sconfina nella sola maturazione adolescenziale/adulta della giovane Tom di una funzionale McKenzie; un trattato che la Granik sente suo da subito, sia per le immagini utilizzate che per l’attenta descrizione di questa società allo sbando, uno spaccato di vita, quest’ultimo, fatto di persone che vivono nel mezzo delle foreste (Will e Tom non sono gli unici) senza però rimpiangere i presunti agi del mondo civilizzato.

E finché Senza lasciare traccia voglia parlare di questo frangente e discorso interessante le cose sono pure accettabili, è quando poi la butta sulle lunghe, facendo barcollare continuamente Will e Tom di foresta in foresta, che le cose si fanno alquanto monotone, mostrando più di una volta determinati discorsi e parentesi dette e ridette, di minuto in minuto.

Ha il difetto di essere ripetitivo il film della Granik, quello sì, seppur vivendo di immagini dal buon impatto (fotografia a cura di Michael McDonough), ma senza però sbracare fin troppo il suo personalissimo punto di vista rivolto alle terre selvagge dell’America che meno consociamo e che un’altra volta tornano al servizio dell’occhio di questa regista (d’altronde anche Un gelido inverno aveva gli stessi principi narrativi).

Senza lasciare traccia è un’immersione totale nelle selva oscura di un metaforico percorso di crescita, a tratti offuscato da un’ambientazione che da sola vale il prezzo del biglietto; ed a guardare il bicchiere mezzo pieno è una cosa più che accettabile.

Mirko Lomuscio