Run: recensione

Avendo dimostrato col suo esordio nel lungometraggio Searching la facoltà di poter gestire, a suo modo, tensione e ritmi da thriller con inquadrature strette e l’utilizzo di pochi personaggi, il regista di origini indiane Aneesh Chaganty torna su questi passi realizzando un nuovo prodotto del medesimo genere, facendo ancora affidamento esclusivamente su location e cast di limitato numero; con Run il nostro autore decide quindi di cimentarsi in un duetto all’ultimo spavento, fra la navigata Sarah Paulson di Glass e American Horror Story, e la giovane esordiente Kiera Allen.


Entrambe interpretano rispettivamente madre e figlia in questa storia che parla di un rapporto al limite del misterioso e del morboso, dove una ragazza affetta da una paralisi scopre che dietro alle cure della sua amorevole mamma possa nascondersi una qualche oscura verità.

Decisa ad indagare, la giovane scaverà in una serie di indizi che la indirizzeranno verso una soluzione inaspettata, venendo a conoscenza di fatti ed eventi che mai avrebbe creduto di scoprire sulla sua vita famigliare.

Thriller che gioca molto, e parecchio, sulla presenza scenica delle sue due protagoniste, Run è un lungometraggio che si lascia vedere per come riesce a creare un suo discorso personale nell’ambito del genere a cui appartiene, tra trovate hitchockiane e una trama che di per sé riecheggia alla lontana un cult come Che fine ha fatto Baby Jane?.

Il regista Chaganty in fin dei conti, senza valicare l’ambizione di voler realizzare assolutamente un capolavoro, riesce a creare una situazione con le dovute ambiguità del caso, gestendo un montaggio palpitante e stendendo uno script basilare (assieme a Sev Ohanian), con risvolti psicologici e momenti sorpresa situati nei punti giusti e al momento giusto.

Che poi si appoggi sull’allucinante presenza della Paulson viene da sé, dati i ruoli disturbanti a cui ci ha abituati e si è abituata l’attrice recentemente, e la nostra regala alla sua performance quelle dovute e ambigue parentesi a cui appartiene il suo personaggio; mentre la Allen si rivela essere essenziale e funzionale per quanto riguarda le finalità dei modesti risultati, ricoprendo l’unico dei due ruoli che ha un nome proprio (lei si chiama Chloe), scelta narrativa che dà modo a Chaganty si universalizzare le sue protagoniste con uno sguardo più espansivo.

Diciamo che Run è cinema dosato con intelligenza in fin dei conti, non arriverà a rimanere negli annali delle scuole di cinema ma riesce nell’obiettivo di far saltare sulla poltrona lo spettatore, rendendo credibile una trama con i suoi facili risvolti narrativi più valida di quel che sembra, memore delle lezioni di regia trasmesse dai grandi autori di una volta e riproposte qua in una salsa moderna ben accetta; questo affinché anche un giovane pubblico odierno possa apprezzare la semplicità e la sincerità registica che un titolo del genere ha da mostrare.

Se ne consiglia la visione se si è in cerca di novanta minuti di puro intrattenimento fatto col cervello.

Mirko Lomuscio