Revenge: recensione

Un sottogenere che ha sempre sostenuto il grande senso dello spettacolo mostrato da un certo cinema exploitation, innanzitutto appartenente alla categoria serie B, è il cosiddetto rape & revenge, ovvero quella serie di pellicole incentrate su trame riguardanti persone che hanno subito violenza o stupro e che, per vendetta, danno pan per focaccia ai loro carnefici.

Un paio di titoli che troneggiano in tal caso sono L’ultima casa a sinistra di Wes Craven, del 1972, e Non violentate Jennifer di Meir Zarchi, del 1978, quest’ultimo vero e proprio cult in riguardo che, grazie al nome creatosi col tempo, si è visto recentemente riproposto in un remake del 2010, a cui si sono accodati due sequel (del 2013 e del 2015).

Ora, in uscita nelle sale, troviamo un nuovo lungometraggio francese facente parte di questa estrema tradizione, alla cui guida c’è l’occhio di una regista donna, dettaglio particolare ed abbastanza raro nel campo del rape & revenge; lei è l’esordiente Coralie Fargeat e il titolo in questione, senza lasciare nulla al caso, è Revenge, una storia di vendette nel mezzo di una battuta di caccia all’uomo, anzi alla donna, dato che la protagonista in questione, interpretata dalla Matilda Lutz de L’estate addosso, è vittima di uno stupro che la trascinerà nel mezzo di un incubo inaspettato.

Lei è Jen, una bellissima ragazza legata sentimentalmente al potente e ricco Richard (Kevin Janssen), un uomo sposato che regala alla sua giovane amante ogni cosa, portandola anche nella sua villa dispersa in mezzo ad un deserto.

Qua vengono a far visita a lui due amici, Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillaume Bouchède), con i quali si appresta a dover cacciare qualche nuova preda animale; ma le cose non vanno per il verso giusto, questo dopo che Jen viene travolta da diverse drammatiche conseguenze.

La ragazza, in fuga per il deserto, diventa preda e cacciatrice dei suoi aguzzini e la lotta per la sopravvivenza sarà molto sanguinolenta.

Le premesse e l’avvio di un’opera come Revenge lasciano ben intendere già da subito determinati punti, come il fatto che la voglia di voler prendere sul serio le cose sembrino essere alla base dell’intera operazione; ma come il film della Fargeat avanza di minuto in minuto, tra scene forti e momenti sorpresa dall’impatto a dir poco cruente, ecco che la narrazione mostra tutta la sua esilità, giostrando male una certa messa in scena e gettandola sul riso involontario.

Il problema che sta alla base dell’operato della Fargeat è il fatto che qua si abusa fin troppo del concetto di “sospensione dell’incredulità”, cioè rendere accettabili cose che nel reale mai sarebbero concepite, e quindi il film in sé vacilla tra un’ambiziosa voglia di far divertire lo spettatore e l’autocompiacimento di un utilizzo estremo dell’effetto gore (non mancano bizzarie da make up e sangue a fiotti).

Certo, a divertire ci si diverte, sempre se si è dediti a volersi lasciar trasportare da una visione fin troppo superficiale, però sicuramente Revenge non rimarrà nella storia come uno dei rape & revenge più memorabili, anche perché non ha la alcuna voglia di risultare realista sotto ogni aspetto, a differenza di come vorrebbe lasciar intendere ad inizio visione.

Mirko Lomuscio