Pacific Rim: la rivolta – recensione

Prima ancora di rincorrere l’Oscar con film che parlavano di storie d’amore tra uomini pesce e donne sordomute, il regista Guillermo Del Toro ha sfornato nel 2013 il suo personale omaggio al cinema dei robot e dei mostri giganti, quel tipo di prodotto che nel settore viene anche denominato come genere kaiju eiga (che tradotto dal giapponese significa “cinema dei mostri giganti”) e che in giro per il mondo ha preso piede grazie a pellicole dedicate a mostroni iconici come Godzilla, Gamera e compagnia bella (che comunque venivano sempre dopo il King Kong del 1933).

Tale omaggio si intitolava Pacific Rim, una storia che vedeva in un futuro prossimo la razza umana messa contro l’esistenza di alcune creature aliene, le quali sono di enormi dimensioni e denominate, per l’appunto, kaiju; l’unico modo per sconfiggerle è affrontarle con i jaeger, enormi robot da battaglia, memori di eroi dell’animazione nipponica come Mazinga, Goldrake e Gundam, guidati da dei piloti scelti che sappiano destreggiarsi in questo tipo di battaglie.

Ora, a cinque anni di distanza da quell’exploit ricco di inventiva ed effetti speciali, ecco che sugli schermi appare il sequel Pacific Rim: la rivolta, un titolo che mette Del Toro nella sola macchina produttiva dell’operazione, affidando quindi la regia all’esordiente Steven S. DeKnight, un nome che si è fatto strada nella televisione grazie a serial come Smallville, Angel e Daredevil.

Stavolta la storia prende avvio dieci anni dopo i fatti avvenuti nel capitolo precedente, a seguito della vittoria degli umani sui temuti kaiju, avendo definitivamente distrutto la breccia che li creava dal profondo dell’oceano.

Il giovane Jake Pentecost (il John Boyega della nuova trilogia Star Wars, qua anche in veste di produttore) è uno scapestrato vagabondo che vive lontano dal ricordo del suo eroico padre Stacker (l’Idris Elba del capitolo uno), e di conseguenza non intende seguire le sue orme prendendo parte all’armata valorosa che guida i potenti jaeger da combattimento.

Ma dopo un eventuale arresto il ragazzo si ritrova costretto ad entrare in questo organo militare, insegnando ai nuovi cadetti le arti del combattimento alla guida di uno di questi robot; doti che ben presto però dovranno mettere alla prova, perché qualcosa, o qualcuno, sta tramando alle loro spalle, minacciando un ritorno dei temutissimi kaiju.

Nonostante la presenza di Del Toro si faccia sentire solo a livello produttivo, nessuno ha impedito ad altre menti di mettere mano alla sua “creatura”, costruendo una trama tutta nuova per questo sequel anche abbastanza atteso, nonostante il primo film non incassò (purtroppo) quanto sperato, seppur non andando malissimo ai botteghini.

E quindi Pacific Rim: la rivolta è quel tipo di seguito che molti si aspetterebbero, privo della visionarietà totale del regista de Il labirinto del Fauno, ma comunque degno di una visione ricca di scontri e immagini spettacolari, sempre ben coadiuvati da effetti speciali notevoli e strizzatine d’occhio all’universo circostante a questo tipo di prodotti (un inevitabile attacco a Tokyo, con tanto di statua di Gundam in bella vista durante la lotta).

Della sceneggiatura, scritta a quattro mani (tra cui quella di DeKnight stesso), ci accontentiamo dei soliti e semplici risvolti emotivi, più qualche colpo di scena, che portano al coinvolgimento di alcuni personaggi già presenti nel primo film (tornano per l’occasione Rinko Kikuchi, Burn Gorman e Charlie Day), più alcune new entry messe per riempimento (la Amara di Cailee Spaeny, il Nate Lambert di Scott Eastwood); certo, magari per tutta la prima parte siamo più dalle parti di un Transformers qualunque qua che nel mezzo di un omaggio all’immaginario jappo, ma con l’avanzare della sua visione Pacific Rim: la rivolta rimedia la sua porzione di rispetto in riguardo, coinvolgendo lo spettatore in una sequela di combattimenti ricchi di deflorazioni e tanta nostalgia per il bambino che è in noi, quello che rimaneva affascinato dalle immaginifiche distruzioni nei cartoon di tanti e tanti anni fa.

Mirko Lomuscio