Mr. Long: recensione

Di killer dal cuore d’oro il cinema ce ne ha mostrati tanti, grazie a delle trame che potessero mettere sullo stesso piano il codice d’onore di un qualsiasi sicario con le forti emozioni di una trama sentimentale ben congegnata, un metodo che col tempo ha saputo dare i suoi buoni frutti; lo ha fatto il francese Jean-Pierre Melville nel 1967 con l’intramontabile Frank Costello faccia d’angelo, per poi ripeterlo il maestro cinese John Woo con il caposaldo The killer nel 1989, ed alla fine anche Luc Besson si è ripetuto in riguardo tramite il suo successo tutto internazionale, del 1994, Leon.

Ora è dal Giappone che arriva un film che mette le mani in una trama analoga, mostrando così una storia ricca di situazioni sentite e gestendo il tutto da uno spunto che parte da un concetto totalmente thriller; Mr. Long è quindi l’ultima pellicola di SABU (al secolo Hiroyuki Tanaka), autore orientale famoso per alcuni titoli come Drive e Happiness, un affresco odierno del binomio noir/sentimenti, utilizzando per l’occasione un protagonista, sì pericoloso, ma al contempo capace di gesti altamente umani.

Lui è il taiwanese Long, interpretato da Chang Chen, ed è il migliore in campo, un assassino letale capace di uccidere chiunque con la lama del suo coltello, richiesto nel settore da qualsiasi malavitoso intenzionato a voler chiudere i conti col proprio avversario.

Un giorno gli viene dato un incarico da svolgere in Giappone, dove dovrà far fuori un potente boss, ma l’operazione non va per il verso giusto ed il killer letale trova rifugio in un piccolo villaggio, un posto quasi disabitato.

Qua un gruppo di persone lo accoglieranno come un uomo dalle doti culinarie innate, tant’è che Long aprirà un’attività propria pur di racimolare i soldi per poter andar via.

Ma fondamentale si dimostrerà la conoscenza del piccolo Jun (Runyin Bai) e della madre tossicodipendente Lily (Yiti Yao), una coppia di persone che porteranno nello spietato assassino un barlume di felicità, un’emozione lontana dal tenore di vita dello spietato Long, perché la sua esistenza è sempre stata fatta di soli pericoli e omicidi da compiere. E quando si è passati una vita così è difficile sfuggire al proprio destino.

Visto al 67° Festival internazionale del cinema di Berlino, l’ultimo film di SABU, regista dalla carriera decennale, è un’ulteriore conferma delle doti poliedriche che appartengono alla narrativa di questo autore, capace di creare un racconto di redenzione sofferta, difficilmente raggiungibile, miscelando momenti forti, dolci parentesi ironiche e puro sentimentalismo.

Utilizzando un linguaggio pregno di immagini chiare e lunghi silenzi, Mr. Long è un lungometraggio che arriva dritto al cuore grazie a quella sua grazia visiva ed emotiva, utilizzando un nutrito gruppo di personaggi appartenenti ad un percorso di vita che avvolge l’emblematico protagonista, reso da un Chen glaciale e profondo, consono ai buoni risultati finali.

Si miscela arte del cucinare con quella di uccidere nell’opera di SABU, il tutto affinché a fine visione si arrivi a sentire propria la piacevole allegoria sulla scoperta di una redenzione ricercata, un tragitto che vede nel mezzo le storie di un gruppo di protagonisti destinati a sentirsi soli ma che insieme sanno di poter riuscire a trovare uno spiraglio, un’uscita per l’agognata felicità.

Solo che per arrivarci SABU non risparmia colpi bassi che fanno a meno del romanzato, ad un punto tale che Mr. Long diviene a tratti anche un prodotto d’intrattenimento, memore della poetica di un Park Chan-wook o Takashi Miike del caso, ma tirando fuori un animo proprio che riesce a farsi rispettare su ogni fronte artistico del caso.

E alla fine del tutto non potrete fare a meno di notare che il vero cinema è di queste parti.

Mirko Lomuscio