Moschettieri del Re – La penultima missione: recensione

Nel 1963, in un impeto di pura voglia di divertimento e parodia nel nostro cinema, approdò nelle sale italiane una commedia in costume, particolare in tal caso, che si rifaceva agli scritti di Alexander Dumas e mise quattro mattatori della nostra risata nei panni del poker di spadaccini più famosi del mondo; perciò, col titolo I quattro moschettieri il regista Carlo Ludovico Bragaglia fece cimentare Aldo Fabrizi, Nino Taranto, Erminio Macario e Carlo Croccolo in un divertissement fine a se stesso, voglioso di prendersi gioco della letteratura di cappa e spada, e del cinema che ispirava, con battute dialettali nella Francia del ‘600.

Ora, con gli stessi principi, sembra muoversi il toscano Giovanni Veronesi, nome caro a film come Manuale d’amore e L’ultima ruota del carro, che da un vecchio progetto tenuto nel cassetto per decenni (Francesco Nuti, Roberto Benigni, Massimo Troisi e Carlo Verdone erano i primi attori che voleva coinvolgere a suo tempo) riesce a tirar su un lungometraggio ambizioso e singolare, trovando l’appoggio di quattro nomi forti del nostro panorama; con Pierfrancesco Favino nei panni di D’Artagnan, Rocco Papaleo in quelli di Athos, Sergio Rubini come Aramis ed infine Valerio Mastandrea in qualità di Porthos, questo Moschettieri del Re – La penultima missione approda nelle sale cercando di portare un pizzico di linfa avventurosa nella commedia italiana di oggi, tra dialoghi pregni di scambi gergali e combattimenti a suon di spade.

Siamo in un periodo situato ben dopo gli eventi che hanno acclamato questi quattro spadaccini della Regina Anna (Margherita Buy), tant’è che ormai i suddetti moschettieri si sono ritirati ed ognuno di loro esiliato a vita solitaria, lontano dai fasti che li hanno descritti.

Ma la loro sovrana ha di nuovo bisogno dei loro servigi, fino al punto di richiamarli in servizio per un’operazione delicata, dove ad essere in gioco è il destino del giovane Re Luigi XIV (Marco Todisco), minacciato dalle malvagie trame del Cardinale Mazzarino (Alessandro Haber) e della sua adepta Milady (Giulia Bevilacqua).

Intraprendendo un lungo viaggio, supportati da un possente Servo (Lele Vannoli) e dalla splendida Ancella (Matilde Gioli), i quattro moschettieri tornano sul campo di battaglia, dimostrando che con gli anni, nonostante si siano un po’ arrugginiti, non hanno per niente perso la loro voglia di combattere per il proprio paese.

Che l’opera di Dumas fosse pregna di una certa ironia di fondo già lo si sapeva d’altronde, tanto che al cinema tale leggerezza, ormai, è stata descritta come si deve nelle trasposizioni firmate da Richard Lester nel pieno degli anni ’70 (ne I tre moschettieri e in Milady – I quattro moschettieri).

Veronesi rincara la dose e porta la sua ambiziosa pellicola con l’idea di miscelare la nostra comicità odierna con l’avventura guascona del noto romanzo; operazione rischiosa, certo, ma se magari al timone del tutto ci fosse stato qualcuno che avesse un’idea ben precisa di cosa voler raccontare questo Moschettieri del Re – La penultima missione sarebbe potuto anche essere qualcosa di meglio.

Non basta far interagire Favino (con accento italo francese per giunta), Papaleo, Rubini e Mastandrea, col loro repertorio dialettale nel mezzo di un’ambientazione cavalleresca, per accattivarsi il volere di un pubblico dal palato facile, ma sarebbe servito al tutto una trama compatta che potesse dare un senso all’intera operazione; Veronesi, per quanto creda nella sua pellicola, davvero non ce la fa, limita il tutto ad alcune caratterizzazioni e battute ad effetto, regala qualche momento di gloria a facce secondarie del suo cinema (Vannoli in primis) e poi azzarda ad un colpo di coda ambizioso che possa giustificare l’idea che sta alla base di questo Moschettieri del Re – La penultima missione, ma senza riuscire a rendersi credibile nelle emozioni enfatizzate.

Va bene la buona volontà, come anche la voglia di sdoganare il nostro cinema in ben altro tipo di linguaggio (d’altronde Veronesi tentò la medesima cosa con Il mio west nel 1998, anche là senza riuscire granché), ma approfondire di più la materia e non fermarsi al superficiale sarebbe cosa ben grata, complementare per la riuscita di un progetto del genere.

Mirko Lomuscio