Mio figlio: recensione

Quando si tratta di padri eroici visti al cinema la nostra mente si orienta direttamente verso prodotti d’intrattenimento, ricchi di fantasia e senso dell’azione, quali sono un paio di opere come Commando con Arnold Schwarzenegger e Io vi troverò con Liam Neeson; ma quando invece si ha intenzione di trattare tale argomento con piglio più sensibile, virato verso una messa in scena più realistica, allora è il momento di coinvolgere in questa fase qualche interprete con maggior presa drammaturgica, meno icona dal pugno duro.

E’ il caso dell’attore francese Guillaume Canet (Love bites – Il morso dell’alba, Vidocq, ma anche regista di Piccole bugie tra amici e Blood ties – La legge del sangue), che con Mio figlio si trova alle prese con il ruolo di un padre pronto a tutto pur di trovare suo figlio appena scomparso; diretto per la terza volta da Christian Carion, dopo le esperienze di Joyeux Noel – Una verità dimenticata dalla storia e L’affaire Farewell, il nostro interprete divide qua la scena con Mélanie Laurent, vista in Bastardi senza gloria, la quale ricopre i panni della sua ex moglie.

La storia è quella di Julien Perrin (Canet), un uomo perennemente in viaggio di lavoro, che apprende inaspettatamente della notizia che suo figlio Mathys (Lino Papa), in custodia dalla ex moglie Marie (Laurent), è scomparso nel nulla, forse vittima di un presunto rapimento.

Preso dallo sconcerto e la voglia di rendersi utile, l’uomo comincia una personale caccia all’uomo che lo accompagna verso la follia, direttamente nel mezzo di un’indagine che metterà a nudo la verità che si cela dietro questa tragedia.

Opera che apre le danze su una realizzazione meramente drammatica, Mio figlio è un lungometraggio che di scena in scena cerca di uniformare una sua aurea da thriller sofisticato, giostrando innanzitutto questa sua esile storia fatta di personaggi fondamentali; ma quando si è troppo consapevoli di questa tale ambizione, allora si è capace di cadere in più di un frangente nella totale discontinuità narrativa, perdendo di vista l’intero impatto emotivo del racconto.

 

Quello che succede al regista Carion è il difetto di calcare un po’ troppo la mano, rendendo innanzitutto il protagonista Canet una macchietta al servizio di un’opera incerta nello svolgimento, a volte vittima di un ironia involontaria (l’incontro tra Julien e il nuovo compagno di Marie, il Grégoire di Olivier de Benoist), altre invece di momenti di cruda violenza (la tortura a base di fiamma ossidrica riservata ad un malintenzionato); in più, a visione conclusa, Mio figlio non riesce a chiudere in modo decente determinate parentesi o interrogativi fondamentali (perché il figlio di Julien è sparito?), alimentando così la sua aurea di opera incompleta e, ancor peggio, ragionata in modo totalmente improvvisato.

Si dice infatti che il protagonista Canet abbia lavorato al film senza saper nulla dallo script, steso da Carion stesso e Laure Irrmann, consultato solo nel momento delle riprese di ogni scena che recitava; ma stando ai risultati ottenuti tale scelta ha portato il prodotto finale verso un livello parecchio estemporaneo.

Mirko Lomuscio