Midsommar – Il villaggio dei dannati: recensione

Dopo essere stato acclamato nel mondo come nuovo talento del cinema horror, grazie al successo ottenuto tramite la sua opera prima Hereditary – Le radici del male, il giovane regista Ari Aster non ha esitato a voler dimostrare nuovamente queste sue qualità, portando in scena in men che non si dica una seconda pellicola, giocata sul senso del mistero che il suo occhio e la sua scrittura sanno infondere nella narrazione; con Midsommar – Il villaggio dei dannati dovremmo quindi assistere alla conferma di un nuovo talento, il cui pregio va innanzitutto nel modo in cui riesce a creare una certa atmosfera pregna di angoscia e ansia.

La storia è quella di un gruppo di amici americani che, per motivi di studio, si stanno preparando per un viaggio nelle terre scandinave, pronti a campeggiare in uno sconosciuto villaggio che promette anche dello scanzonato divertimento; tra questi amici c’è la giovane Dani (Florence Puch), una ragazza recentemente reduce da una tragedia familiare.

Coinvolta in questo itinerario dal proprio ragazzo Christian (Jack Reynor), lei si ritroverà immersa in una sperduta zona del Nord Europa, in mezzo al verde ed ospite di una piccola comunità dedita all’esistenza lontana da ogni tecnologia; ma c’è qualcosa di strano in questo luogo, perché le persone che vi abitano, oltre che pacifiche e apparentemente innocue, sembrano comportarsi in modo alquanto ambiguo.

Dani e i suoi amici si accorgeranno personalmente che questo atteggiamento nasconde un antico segreto, dove il sangue scorrerà notevolmente.

Avendo dimostrato col suo esordio di avere senso del gioco d’immagini e attenzione al dettaglio angosciante, Aster stavolta cerca di portare lo spettatore in un racconto ricco di luce e sole, cercando di descrivere un determinato raccapriccio stando esclusivamente tra campi dorati e cieli azzurri idilliaci; Midsommar – Il villaggio dei dannati è come un tentativo da parte del suo giovane autore di voler mescolare, di nuovo, le carte del citazionismo, e mentre in quell’Hereditary – Le radici del male venivano scomodati riferimenti al cinema di Ken Russell e Nicolas Roeg, con qualche punta al nostro Dario Argento, in questa seconda prova ad essere messo nel mezzo è l’amore verso un classico del cinema britannico quale è The Wicker Man di Robin Hardy, datato 1973 (rifatto, male, nel 2006 con un lungometraggio interpretato da Nicolas Cage), e che Aster si cimenta ad omaggiarlo nel plot e nell’ambientazione, facendo suo un materiale abbastanza lineare e semplice.

Sta forse in questa semplicità la pecca maggiore di Midsommar – Il villaggio dei dannati, elemento che magari rende abbastanza prevedibile ogni finalità narrativa del caso, tant’è che conclusione ed esiti di ogni singolo personaggio sono ben deducibili dopo alcuni minuti di visione, ma Aster ha un originale senso della regia, trasformando così questa storia di malefici e stregoneria una visione a suo modo accattivante, sorretta da un ritmo calibrato, nonostante le due ore e venti (!) di durata.

Certo poco importa della storia di questi abitanti scandinavi in conclusione e nulla viene spiegato in modo dettagliato, anzi tante cose sono accennate ma con grande senso dell’immaginazione (da citare la lunga inquadratura che mostra una serie di disegni incentrati su un macabro rito tutto femminile), di Midsommar – Il villaggio dei dannati si salva giusto il modo in cui le inquadrature vengono giostrate, creando un’opera che non ha nulla di originale nei contenuti ma che ha qualcosa di interessante nella forma.

Questo conferma Aster come regista dalle qualità visive ben curate, ma sul piano della scrittura deve ancora perfezionarsi; quindi ritenerlo una promessa del cinema horror a tutto tondo è ancora giudizio molto prematuro.

Mirko Lomuscio