L’uomo nel buio – Man in the dark: recensione

Nel 2016 l’immaginario thriller/horror del cinema di genere americano vide aggiungersi alla sua vasta galleria di villain iconici un nuovo personaggio difficile da dimenticare, ovvero il veterano non vedente protagonista della pellicola Man in the dark, interpretato da un massiccio ed allucinante Stephen Lang, caratterista dalla lunga carriera visto in titoli come Manhunter – Frammenti di un omicidio, Insieme per forza e Avatar.

Diretta da Fede Alvarez e prodotta da Sam Raimi, l’opera in questione riscosse il suo buon successo dando quindi modo di mettere mano ad un sequel tutto nuovo, che giunge nelle nostre sale col titolo L’uomo nel buio – Man in the dark; diretto da Rodo Sayagues, esordiente dietro la macchina da pressa già co-sceneggiatore del primo capitolo, la storia riprende da dove eravamo rimasti nel precedente lungometraggio, trovando però il nostro micidiale non vedente alle prese con la comune vita di un padre di famiglia.

Sua figlia è la piccola Phoenix (Madelyn Grace), i quali vivono nella loro casa dispersa nel verde trascorrendo una tranquilla esistenza che sembra non avere alcun problema; questo fino a quando alla porta della loro abitazione non si presenta un gruppo di loschi figuri, guidati dallo spietato Raylan (Brenda Sexton III), i quali sembrano intenzionati a voler rapire la piccola Phoenix.

Ovvio che il nostro veterano non vedente non permetterà che succeda, cercando di far rimpiangere al gruppo di intrusi di essersi infiltrati nella casa sbagliata.

Quello che preme notare nella premiata ditta qua composta da Sayagues (regista/sceneggiatore) e Alvarez (produttore/sceneggiatore), collaboratori sodali sin dal primo film diretto dal secondo, ovvero il remake de La casa, è come il loro sguardo e la loro ottica miri a voler mettere in scena un’opera dall’estetica cruda e senza fronzoli, pessimista e dark quanto basta pur di infilare lo spettatore in uno spettacolo di genere con i suoi spunti originali.

L’uomo nel buio – Man in the dark gioca spesso e volentieri su questo punto di vista, regalandoci un film che si fa memore della crudezza di determinate opere a cavallo tra i ‘70 e gli ’80, tanto da ricordare un cinema alla Michael Winner per dirne una, ancorandosi però perfettamente all’entertainment dei moderni e più controllati anni odierni.

Con queste premesse non si nega quindi che il film di Sayagues sia violento, anzi lo spettacolo di questo sequel si basa innanzitutto su raccapriccio e botte da orbi, e ciò fa più che bene all’animo exploitation dell’operazione; l’unica cosa che gli si può rimproverare è una scrittura poco convincente nella descrizione di determinati momenti, salvo però guadagnarsi un proprio rispetto per l’utilizzo dei vari colpi di scena costellati ogni tot tempo.

Ma oltre ciò ci troviamo di fronte ad un sequel degno di nota, ricco di inventiva e non esente di virtuosismi tecnici (da citare un notevole piano sequenza quando Phoenix si nasconde in casa dai suoi rapitori), con un Lang in primo piano che, a differenza del capitolo precedente, si concede anche a momenti di convincente intimismo, soprattutto quando si tratta di mostrare il lato umano del suo inquietante personaggio.

Mirko Lomuscio