L’isola dell’abbandono: recensione

“E soprattutto ti aspetto a Naxos, un’isola strana, dove le storie cominciano, passano, ma non si chiudono mai, perché c’è sempre qualcuno che si inventa un finale diverso e così tutto ricomincia da capo, come in un eterno presente. Quello in cui ti auguro il più possibile di avere la sensazione di vivere, perché anche se ogni tanto è faticoso, comunque ne vale la pena. Le storie dove il passato, il presente, il futuro filano uno dopo l’altro, invece di giocare a nascondino nello stesso labirinto, non possono essere interessanti”.

Naxos, un’isola greca che colpisce e ferisce gli occhi con la sua luce gloriosa.

Sfondo di un viaggio che sa di tentativi mal riusciti.

Il meltemi, vento secco e tiepido, culla di una pace indovinata.

 “Sei esattamente quello che stavo cercando”.

Le paure che come la natura selvaggia vengono fuori, brutali, ma che dette a voce alta stanno finalmente lì davanti e si fanno guardare in faccia.

E allora anche avere un figlio diventa un’esperienza che non per forza deve vestirsi di menzogna o annullamento.

Anzi. Bisognerebbe approfittarne ed essere il più sinceri possibile, “adesso che siamo solo all’inizio, non ci diciamo bugie, e se facciamo lo sforzo di rimanere saldi e non permettiamo all’Uragano Figlio di portarsi via le nostre contraddizioni, le nostre impotenze, i nostri più veri, oscuri desideri, se non trasformeremo i nostri figli nella scusa per perdere definitivamente il contatto con quello che davvero siamo”.

Arianna, vive costantemente di paure, di “fantasia drammatica”. Viene abbandonata, subisce l’abbandono nutrendosi del vuoto. Le è più familiare ciò che non c’è, è lì che si rifugia ogni volta, ci si aggrappa per nascondersi.

Ma poi succede che si abbandona, ritrova il filo, quel filo che la tiene legata in modo consapevole alla vita, a quello che c’è.

Suo figlio Emanuele, Di.

Se stessa e tutte le parti della sua storia.

Non è facile, ci vuole costanza.

Un altro dei modi sopraffini in cui Chiara Gamberale ci permette di esplorare ciò che di più profondo si cela dietro la nostra quotidianità.

E di sederci a tavolino con le nostre emozioni.

Erika Carta

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