La casa di Jack: recensione

Reduce dallo scandalo dell’ultimo Festival di Cannes, dove è stata accolta tra l’altro in mezzo a fischi e feroci critiche (ma anche svariate lodi), approda nelle nostre sale l’ultima provocante pellicola del regista danese Lars von Trier, uomo e personaggio che non ha bisogno di alcune presentazioni e che arriva al cospetto del suo numerosissimo pubblico con un film dagli spunti accattivanti, se non proprio graffianti.

Dopo aver chiuso la sua parentesi ultra erotica con il dittico Nymphomaniac, il regista de Le onde del destino decide di rincarare la dose di attenzione e scandalo con questa ultima irriverenza, cioè La casa di Jack, ovvero la storia di un serial killer che fa i conti con la propria coscienza dialogando con un immaginario Virgilio, e nel mentre noi assistiamo ai vari stadi di questa trasformazione (dis)umana del protagonista.

A ricoprire i panni del pericoloso Jack del titolo è Matt Dillon, lontano anni luce dai fasti di Rusty il selvaggio e I ragazzi della 56a strada, qua intenzionato a lasciarsi guidare dalla folle mano del maestro von Trier, innanzitutto per mettere in gioco la propria faccia davanti ad uccisioni e squartamenti vari; lui è un assassino seriale che vive negli anni ’70, un uomo che ha in mente l’idea di voler costruire una casa ma che nel frattempo deve anche dedicarsi a questo suo macabro passatempo.

Durante un dialogo nell’aldilà con tale Verge (l’appena scomparso Bruno Ganz), Jack rivive quei cinque momenti fondamentali, denominati “incidenti”, che lo hanno reso il sanguinario assassino quale è, psicoanalizzando se stesso e tutto ciò che porta la sua vena artistica verso la follia completa, tra uccisioni e creative modalità di omicidio.

Creare arte è come uccidere, ed uccidere senza essere mai venire catturati è come abusare della propria vena artistica ricevendo elogi ed allori; sembrerebbe voler dire questo l’ultimo film di von Trier, così a prima vista, come sembrerebbe voler assolutamente portare allo stremo la difficile personalità registica di questo autore che ha sempre avuto i suoi onori in ogni dove, creando magari degli squilibri nello stesso Lars, il quale, giusto per provocare reazioni oltre la quarta parete, decide di raccontare cose che possano sconquassare lo stesso spettatore; è stata la crisi matrimoniale di Antichrist come poi la libido femminile nel succitato Nymphomaniac, ed ora, dopo aver parlato esclusivamente di sole donne (lo stesso regista ha avuto da dire “Per molti anni ho girato film su donne buone, ora ho fatto un film su un uomo malvagio”) ecco che La casa di Jack ci mostra un lato, all’apparenza, misogino dell’autore di Dancer in the dark, estremizzando questa storia di un serial killer che, alla base del tutto, non ha molto da dire rispetto ad altri lungometraggi analoghi per argomento (due su tutti, Henry – Pioggia di sangue e Il cameraman e l’assassino, ed in aggiunta il misconosciuto Schramm di Jorg Buttgereit).

Qua si recepisce come sempre la personalità di chi c’è dietro a tutto ciò, l’animo malsano (ricco di humour nero) e pieno di sé di von Trier, che ci guida, come il Verge di Ganz fa con l’allucinato e statico Dillon, di omicidio in omicidio spiegando il senso dell’arte e dei dettagli che la portano ad essere materia elevata in ogni caso; ci sono squartamenti, fucilazioni, strangolamenti e coltellate, ma tutto gestito in modo che sembri di osservare l’opera di un artista, un architetto, capace di ammassare cadaveri come fossero mattoni per una casa da innalzare.

Un argomento complicato tutto ciò, certo, come anche un altissimo senso di ambizione dovuta dal suo regista, sta di fatto che La casa di Jack alla fine, in quanto a provocazioni e omicidi disturbanti, ha i suoi momenti, sorreggendosi su un Dillon ghignante, il quale si aggira di minuto in minuto ammazzando celebrità femminili come niente fosse (tra le vittime Uma Thurman e Riley Keough); non una passeggiata ovviamente, ma l’ultimo von Trier (e a detta del regista dovrebbe trattarsi della sua pellicola finale; ma voi ci credete?) infine è vedibile per la voglia di conoscere meglio questo regista e la sua arte, capace di uccidere la validità di un film grazie alle proprie esagerazioni narrative.

Proprio come Jack fa con la propria coscienza di uomo e di professionista innanzitutto.

Mirko Lomuscio