Il codice del babbuino: recensione

Direttamente dal collettivo Amanda Flor, gruppo culturale nato a Guidonia Montecelio nel 2004 a cui dobbiamo opere indipendenti come La rieducazione e Ad ogni costo, spunta nelle sale un piccolo prodotto derivante dalla creatività di questo pugno di artisti, intitolato Il codice del babbuino.

L’ambientazione è quella delle periferie romane, quelle abitate da qualsiasi variegata personalità di un certo microcosmo, che siano razziali o criminali, e per la regia di Davide Alfonsi e Denis Malagnino questo lungometraggio mostra una trama che si insidia tra le rigide personalità che abitano tali luoghi, traendo così un racconto avvincente e sostenuto innanzitutto dalle caratterizzazioni qua presentate.

Tutto comincia col ritrovamento di una ragazza violentata, il cui corpo viene rinvenuto vicino ad un campo rom; la vicenda scatenerà nel ragazzo di lei, il duro Tiberio (Tiberio Suma), un forte senso di vendetta, volendo trovare assolutamente il colpevole di tutto ciò e attribuendo la colpa agli zingari del luogo.

Accompagnato dall’amico Denis (Malagnino), il ragazzo comincerà una lunga ed estenuante corsa verso la verità, girando per tutta la notte tra coloro che possono sapere cosa in realtà sia successo; decisivo si rivelerà essere l’aiuto del temuto Tibetano (Stefano Miconi Proietti), boss del quartiere che muove le fila in ogni dove là, e grazie alle sue informazioni la verità non tarderà ad arrivare, sottoforma di resa dei conti anche.

Nel sottobosco del cinema italiano più indipendente in assoluto è possibile scorgere di tanto in tanto opere dal sapore accattivante, realizzate con pochissimi mezzi ma sorrette da un forte senso narrativo, nonostante la povertà produttiva sia onnipresente; Il codice del babbuino rientra a pieni titoli in questa categoria, riuscendo a costruire una esile trama di vendette di periferia con l’ausilio di personaggi forti e ambientazioni adeguate.

Certo, nell’era dei vari Romanzo criminale e Gomorra che siano è difficile inventare una qualche storia criminale periferica con taglio originale, ma c’è da dire che al duo Alfonsi/Malagnino non interessa tanto eguagliarsi a tali prodotti, riuscendo così a tirar su un gioiellino indipendente che vive di propria ispirazione, lasciando sì che a costruire lo svolgimento siano i caratteri del trio di protagonisti.

Forse ad un primo impatto le interpretazioni possono sembrar essere fin troppo caricate, esagitate o concitate, con qualche pausa meccanica che fa un po’ dilettantesco, ma dopo un po’ Il codice del babbuino mostra bene le sue cartucce, trasporta lo spettatore in questa lunga notte fatta di strade buie e infinite, fino a tirare le somme con un inaspettato epilogo.

Molto è basato sulla scrittura nell’opera di Alfonsi/Malagnino, autori anche dello script, e quindi è logico che questo on the road notturno si affidi a gran parte sul dialogo tagliente, in tutto e per tutto, traendo così una storia di vendetta e tentata redenzione un po’ come ha fatto il recente Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, il tutto senza dimenticare le lezioni di regia sul degrado periferico che un nome come Claudio Caligari ci ha regalato col suo cinema.

Il panorama indipendente come quello mostrato in questo Il codice del babbuino è un panorama che va sostenuto con la massima attenzione, ed una visione del film di Alfonsi e Malagnino è più che consigliata.

Mirko Lomuscio