Green book: recensione

Alla base di tutto c’è una vera amicizia nata all’ombra degli anni ’60, nel Sud degli Stati Uniti, in un momento razziale ormai noto a tutti e che vedeva la gente di colore come esseri inferiori, da mettere al bando qualsiasi cosa facessero o pensassero allora; qua, Tony Vallelonga, meglio noto come Tony Lip, ed il musicista Don Shirley incrociarono i loro destini, instaurando un rapporto d’amicizia che va ben oltre la diversità di razza, creando così un feeling che anni dopo sarebbe diventato materiale per un film.

Quel film si chiama oggi Green book, derivato dai racconti che il figlio di Tony, lo sceneggiatore/attore Nick Vallelonga (tra i suoi script L’ultimo inganno di Roman Coppola), ha raccolto da suo padre e messi insieme in questo lungometraggio; chiamato al timone di regia il Peter Farrelly di tanto cinema comico dai picchi dementi quanto geniali (Amore a prima svista, Scemo e più scemo e sequel), l’opera ha per protagonisti una coppia ben assortita, formata da un Viggo Mortensen appesantito e con accento italoamericano e dal premio Oscar (per Moonlight) Mahershala Ali, i quali ricoprono rispettivamente i ruoli di Tony e del pianista di colore Shirley.

Tutto comincia nel 1962, quando Lip, sposato uomo di origini italiane che abita negli States, si barcamena tra un lavoretto e l’altro finché non trova un’ottima opportunità professionale; fare d’autista ad un rinomato musicista per un tour nel Sud del paese.

La cosa sembrerebbe ottima, non fosse che il pianista di grande bravura sia un uomo di colore di nome Don Shirley, e la cosa ovviamente potrebbe creare non pochi problemi.

Conscio dei rischi da correre, Tony si prende le sue responsabilità e volante alla mano intraprenderà questo viaggio inedito della sua vita, lontano dalla sua famiglia per ben otto settimane; in questo tragitto l’uomo stringerà un rapporto sempre più fraterno col suo cliente, scoprendo cose e sguardi inediti della sua esistenza, che lo spingeranno ad avvicinarsi sempre più al singolare modo di vivere di Shirley.

Cinematograficamente parlando, siamo nel pieno di una riscoperta dei diritti razziali, demonizzando ciò che la gente di colore subì in anni passati tra leggi indecenti e totale mancanza di rispetto; numerose le pellicole che ultimamente hanno portato queste tematiche davanti agli occhi tutti, che siano film da Oscar come 12 anni schiavo e Moonlight, oppure semplici biografie come Selma – La strada per la libertà e Il diritto di contare, senza dimenticare varanti di genere come l’horror Scappa – Get out e il cinecomic Black panther.

In mezzo a questo marasma di pellicole a tema ben preciso ecco che il buon Farrelly si cimenta in un racconto a suo modo allegro e ricco di anima, deciso a voler raccontare un incontro tra un uomo bianco e uno di colore nei contraddittori anni ’60; Green book è un viaggio tra le vie di due caratterizzazioni molto forti quali sono quelle di Lip e Shirley, uno l’opposto dell’altro, non solo per evidenti motivazioni epidermiche, ma anche per un’etica esistenziale che li distingue bene.

Il primo è un personaggio dai metodi spicci a tratti rudi, ma pur sempre smosso da un cuore d’oro; il secondo invece è una sagoma ben educata e altolocata, dalla parlata scandita e un bon ton sempre presente.

Un’accoppiata che sulla carta sarebbe capace di dare molto, quel molto che Green book regala di minuto in minuto grazie ad una serie di botta e risposta secchi e precisi, mai ripetitivi e retorici, ben calibrati da una script (firmato da Farrelly, Vallelonga e Brian Currie) che rasenta la perfezione per come dosa moralismo ed imprevedibilità senza freni.

E come incentivo a tutto ciò la bravura innata dei due protagonisti Mortensen e Ali, perfetti e adorabili nelle loro interpretazioni, mai sopra le righe e gigioneschi, entrambi capaci di regalarci un paio di performance da rimanere impresse nei prossimi annali emotivi dei grandi attori.

Mai nella storia dei diritti razziali si era visto un film misurato a perfezione come Green book, opera che porta nuova linfa per il cinema a sfondo civile, ma anche grande prova di maestria nel saper dosare ad hoc una profonda scrittura ironica.

Mirko Lomuscio