È da lì che viene la luce: recensione

“Wo viel Licht ist, ist auch viel Schatten”

“Dove c’è luce c’è anche ombra”

Goethe.

Esattamente in questo spazio, si muovono le parole di Emanuela E. Abbadessa, scrittrice e saggista, nel suo ultimo romanzo: È da lì che viene la luce.

Taormina, uno scorcio di costa della Sicilia nel periodo fascista.

Mi piacerebbe dire che il fascismo è lasciato a margine, fuori dalla villa e dall’obiettivo della Leica di Ludwig von Trier, ma purtroppo non è così.

Ogni scelta, ogni gesto, eppure anche ogni omissione, ne è ferocemente intrisa.

Ma come detto nelle prime righe, ombra e luce coesistono e, aldilà del buio, c’è il barone von Trier che, cagionevole di salute ai polmoni, si libera dal giogo paterno e dalla fredda Germania, arrivando in quel luogo assolato e profumato d’arancia dell’Italia, che è la Sicilia.

C’è Elena Amato, la governante dai colori chiari, soprannominata ‘a tidisca, cresciuta in un convento di suore e per questo, consapevolmente atea.

C’è Sebastiano Caruso, un ragazzo giovane, di quella bellezza genuina che non appartiene solo al corpo.

E c’è Agata Costa, infelice, invidiosa e insoddisfatta, che scarica le sue colpe sugli altri con un effetto domino spaventoso.

Liberamente ispirato alla storia del fotografo tedesco Wilhelm von Glöden, questo romanzo però, parla sopratutto di bellezza. La bellezza universale che non ha sesso, né patria.

Quella pura, che si trova nel mondo dell’arte, perché è solo in quel territorio che la luce fende il buio e la libertà detona i muri.

“Era nato forse con un difetto, qualcosa che mancava nel sangue, una malattia inguaribile come quella ai polmoni.

Poi, mentre le palpebre, cominciavano a farsi sempre più pesanti, lo sfiorò l’idea che il problema fosse della società.

[…] Scostò la tenda e guardò la sera su quella porzione di costa della Sicilia. Pensò ai volti di Caravaggio, alle statue di Prassitele, ai Prigioni di Michelangelo e le membra molli o vigorose di quelle opere, le labbra degli uomini ritratti, i loro occhi aperti o socchiusi, gli comunicarono  solo bellezza. E la bellezza non era mai malata”.

“Sapeva che le certezze sono tra le cose più fragili, si maneggiano come blocchi di granito mentre loro possono incrinarsi e andare in pezzi come bicchieri di cristallo. La sicurezza della forza e dell’eccellenza, di cui tutti in quel momento si stavano ubriacando, forse era solo illusione e utopia di potere; era una fata Morgana capace di affascinare fino a portare l’Europa verso luci fallaci che alla fine si sarebbero potute rivelare l’effetto ingannevole di una rifrazione. Miraggi inarrivabili di mondi ordinati, abitati da uomini perfetti che avevano allontanato da sé, sopprimendoli, i deboli e diversi, per la paura di somigliare loro più di quanto volessero ammettere. Un giorno, qualcuno avrebbe favoleggiato di pianeti sconosciuti in cui società militari avrebbero eliminato gli imperfetti per creare generazioni invincibili, ma quella sarebbe stata soltanto finzione letteraria perché nella realtà era proprio il difetto a creare la bellezza”.

Erika Carta

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