Denti da squalo: recensione

Opera prima che, tra l’altro, vede il sostegno produttivo della Goon Films di Gabriele Mainetti, ovvero il regista de Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, Denti da squalo è un film che sulle prime sembra riaffiorare un senso di eco vengeance tra le righe del suo titolo, quando invece il richiamo al predatore acquatico per eccellenza serve esclusivamente da metafora di crescita; una metafora che accompagna il giovanissimo protagonista di questo lungometraggio, diretto dall’esordiente Davide Gentile, e che si ambienta in una selvaggia periferia come quella del litorale romano, popolata da una gioventù priva di ispirazione e atta alla piccola criminalità.

Il bambino Walter (Tiziano Menichelli), dopo la morte del padre Antonio (Clausio Santamaria), vive da solo con la madre Rita (Virginia Raffaele), trascorrendo un rapporto immerso nei ricordi di un passato lontano e ricco di momenti indimenticabili.

Ma quando la scuola è finita, alle porte dell’estate, Walter si intrufola nella villa di un potente boss locale di nome Il Corsaro (Edorado Pesce), facendo una scoperta sorprendente; nel giardino c’è un’enorme piscina, dentro la quale vive un feroce squalo.

Impaurito inizialmente dall’essere, il bambino man mano instaura un rapporto emotivo con l’animale, facendogli da custode assieme allo sconosciuto Carlo (Stefano Rosci); apprenderà un percorso di crescita che lo porterà al cospetto della piccola malavita locale, scoprendo che l’esperienza che sta vivendo è solo l’inizio di un definitivo cambiamento esistenziale.

Racconto estivo che sulle prime sembra avere echi kinghiani stile Stand by me – Ricordo di un’estate, Denti da squalo in verità è un’opera che ben si discosta da determinati punti di riferimento oltreoceano e decide di ancorarsi su una narrativa prettamente italiana, col fine di incentrare maggior parte dello sguardo sulla scapestrata gioventù dei litorali romani.

Ed il risultato alla fine dei fatti non è molto elevato, tutto rimane su una visione assolutamente modesta, penalizzato da una regia a volte asettica, a volte priva di determinati guizzi creativi (d’altronde è di un’opera prima che parliamo), pur sembrando di avere un qualcosa d’importante da dire tra le righe del proprio racconto; tutto si incentra nella metaforica presenza di questo pescecane che, nonostante si veda poco e niente (creato ad hoc da un team di effettisti capeggiato da David Bracci), riesce a far sentire la propria presenza minacciosa, anche grazie attraverso la riuscita performance del giovanissimo Menichelli.

Inoltre lo script a cura di Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, vincitore del premio Solinas, cerca di miscelare quanti elementi più cari alla cinematografia moderna italiana, dalla piccola malavita ai rapporti di famiglia, per arrivare fino all’epilogo votato all’esistenziale che può sembrare liberatorio, quando alla fine, giochi di parole a parte, non è né carne né pesce.

Come già accennato, notevole è la performance del giovane Menichelli, attorniato dai volti navigati degli adulti Raffaele, Santamaria e Pesce, più l’appoggio dell’adolescente Rosci, un giro di personaggi che dovrebbero incidere all’economia narrativa di Denti da squalo, quando il più delle volte si sviluppano in modo da essere abbozzati il necessario.

Un film che “galleggia” nella media dei prodotti nostrani odierni e che poco porta al “nuovo che avanza” cui siamo abituati recentemente in Italia.

Mirko Lomuscio