Daredevil – Stagione 3: recensione

All’angelo caduto cacciato dal paradiso non resta altro destino che farsi demonio.
Matt Murdock è stato sia un angelo che un diavolo per anni, ormai, amato e odiato dalla sua città, dalla quale ha ottenuto e perso molte cose, amori, rancori, vittorie e sconfitte. Si è rialzato per ogni volta che è finito a terra, come il pugile che era suo padre. Dopo la rovinosa caduta subita alla fine dei Defenders (non si sa se sia più la caduta emotiva o quella del flop della serie in sé), ora il diavolo di Hell’s Kitchen dovrà rinascere, come nel fumetto di Frank Miller dal quale è presa questa stagione, e affrontare una volta per tutte i suoi veri demoni, sia mentali che fisici, che rischiano di rendere New York un vero inferno.
Sopravvissuto alla Mano, Matt è in convalescenza al convento di suor Maggie, malconcio e sordo da un orecchio. Ha perso di nuovo la donna che amava ed è distrutto sia fuori che dentro, ma ritrova la forza di indossare il cappuccio una volta saputa la notizia dell’uscita di prigione di Fisk.


Questa terza stagione è una perfetta sinfonia di ciò che è realmente Daredevil, sia come personaggio sia come simbolo. Dopo una prima stagione ben riuscita e una seconda che sarebbe stata totalmente fallimentare se non ci fosse stato il personaggio di The Punisher, Matt riesce a risollevarsi più forte che mai assieme alla sua omonima serie. Ogni episodio racchiude crudezza, disperazione e rammarico, ma anche decisione, speranza e coraggio. Tali caratteristiche sono espressamente rappresentate attraverso gli occhi vuoti di Matt, interpretato come al solito da Charlie Cox. Forse uno degli attori più sottovalutati degli ultimi anni, riesce ad esprimere le sue emozioni anche con metà viso coperto. I suoi dilemmi morali sono affrontati attraverso dialoghi magistrali e controversi, che metteranno alla prova le regole che lui stesso si è imposto.


Vi è un rapporto molto più unito e approfondito tra Karen e Foggie, che ora, senza l’aiuto del loro amico, devono cavarsela da soli, sia con i loro problemi personali sia con quelli legati all’uscita di prigione di Fisk. Un rapporto di stretta amicizia, fatto di compromessi e promesse, alcune mantenute altre infrante per il bene comune. Tali azioni comprometteranno reazioni a catena, soprattutto nel personaggio di Karen, che qui ha un ruolo essenziale, a volte anche focale, alla quale segue Foggie, deciso più che mai a fermare Fisk.
Un Kingpin eccezionale, interpretato dall’altrettanto caparbio Vincent D’Onofrio. Freddo, distaccato, eppure legato a ciò che più ama al mondo.  Un genio criminale altamente emotivo, che ha elaborato un piano capace di far intrecciare i più abili eroi in una matassa dalla quale sarà difficile uscire.


Vi è, come di consueto, l’episodio del piano sequenza nel quale Matt deve vedersela con più malviventi da solo, aprendosi la strada a calci e pugni, ma qui viene resa molto più lunga, e soprattutto con un fine molto più importante, non solo salvare una bambina o scoprire un determinato segreto. Le inquadrature sono un’alternanza fluida di campi medi e primi piani, in un movimento di macchina che rende l’illusione di tempo presente, senza stacchi o tagli di montaggio.
Tuttavia, l’episodio migliore è probabilmente il quinto, dove la stagione riesce a raggiungere livelli realmente artistici.


Senza spoilerare troppo, Fisk è intento a scoprire la storia della giovinezza di un agente dell’FBI che gli ha salvato la vita e che ora lo sorveglia. Il modo in cui hanno girato tale sequenza, come se realmente il Kingpin vedesse coi suoi occhi la storia di questa persona quasi stesse viaggiando nel tempo tra le righe dei dossier, è una trovata narrativamente geniale perché rende omaggio non solo al detto “show, don’t tell”, ma anche alla caratterizzazione di uno dei villain più sottovalutati della Marvel. Non solo un assassino sanguinario e psicotico senza una ragione, ma una persona legittimamente disturbata. C’è da chiedersi come sia possibile che la Marvel non riesca a creare villain così memorabili anche nei suoi numerosi film.


L’unica pecca è, come sempre, la paura degli scrittori ad ammettere che sia una serie presa da un fumetto: a volte esagerano col realismo. Hanno paura a nominare Kingpin o altri personaggi Marvel coi loro alias, com’è successo col Gufo nella prima stagione.
Nonostante ciò, la terza stagione di Daredevil è uscita maestosa, ricca di colpi di scena, tensione ed emozioni, capace di raggiungere i fasti della prima stagione e addirittura superarli.
La speranza è che non venga cancellata assieme a Iron Fist e Luke Cage.

 

Andrea De Venuto

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