Brave ragazze: recensione

Tante volte, pur di realizzare una commedia che si non si rispecchi nel pieno del genere a cui appartiene, si cerca di trovare una qualche storia vera che possa saper bilanciare senso tragicomico della vita e vera tragedia umana, cercando di fare magari il punto della situazione sfoggiando idee in cerca di una vena poetica.

Tenta tale approccio l’opera numero due della regista italiana Michela Andreozzi, personaggio che ha calcato le scene del cabaret negli anni ’90 per poi approdare al cinema, prima come interprete (Natale col boss, Beata ignoranza, La notte è piccola per noi) ed ora anche come regista, avendo già esordito in tale ruolo con la commedia Nove lune e mezza del 2017; tramite Brave ragazze la nostra autrice decide di affacciarsi alla cronaca vera, prendendo come spunto un fatto avvenuto nella provincia francese anni ’80 e spostandolo nella Gaeta di quel decennio, sfruttando un poker di interpreti femminili promettenti a guidare la bizzarra trama.

Con Ambra Angiolini, Ilenia Pastorelli, Serena Rossi e Silvia D’Amico a ricoprire i panni delle quattro protagoniste, rispettivamente Anna, Chicca, Maria e Caterina, questo film narra la storia di un pugno di amiche del Sud Italia che, stufe del loro triste tenore di vita, decidono di compiere il più folle dei gesti, ovvero rapinare una banca.

Ma per farlo dovranno fingersi uomini, così da sviare ogni tipo di indagine a riguardo, espediente che ha del geniale e che potrebbe davvero dare i suoi buoni frutti; ma se il colpo andrà a buon fine come proseguire e far finta di nulla?

Veramente queste donne sono pronte ad intraprendere un’esistenza da fuorilegge, con tanto di famiglia con cui fare i conti e a cui nascondere la propria identità criminale?

Scontrarsi con la propria coscienza ed esistenza porterà in loro un vero cambiamento.

Recentemente il cinema italiano ci ha mostrato più di una volta come il gentil sesso possa essere letale, se armato fino ai denti; pensiamo ad una commedia riuscita come Amiche da morire di Giorgia Farina (con la quale l’opera della Andreozzi ha più di un punto in comune) oppure al titolo inversamente accettabile quale è Ragazze a mano armata di Fabio Segatori, due esempi nostrani dove si è pensato di utilizzare un gruppo di protagoniste donne dagli intenti criminali, ma con esiti ai limiti del comico.

Sinceramente Brave ragazze non sembra aggiungere molto in materia, anzi, diciamo anche che aggrava la situazione, mostrando una narrazione che vacilla tra i toni leggeri e quelli melo’, cercando di portar rispetto per del materiale che, forse, trattato all’estero avrebbe avuto miglior trattamento.

Qui, quando si tratta di voler intrattenere, ci si affida a delle caratterizzazioni basilari del caso (la “leader ragazza madre” della Angiolini, il “maschiaccio” della Pastorelli, la “donna di casa” della Rossi e la “studiosa” della D’Amico) senza trarne grande beneficio, ed in più l’elemento umoristico con riesce a condensarsi con la materia più sentita (c’è anche un pizzico di action, ma molto fine a se stesso in conclusione), creando un vero distacco tra le due cose e rendendo la visione di questo lungometraggio di una noia imperante.

La Andreozzi inoltre cerca di arricchire il tutto con la presenza guest di Luca Argentero (è un commissario di nome Giovanni “Gianni” Morandi), Stefania Sandrelli (è la madre di Anna) e Max Tortora (il migliore del lotto, è un prete che, inspiegabilmente, si chiama Don Backy), più ritagliarsi il piccolo ruolo della segretaria del commissario, questo senza rendersi conto di gettare la visione in un compendio di scrittura mal concepita e regia ancor più scialba, trasformando Brave ragazze in un inutile tentativo di aggiornare il tema del modello femminile passato (siamo negli anni 80) con l’occhio di oggi (non mancano riferimenti all’omosessualità o all’emancipazione femminile in sé, soprattutto di fronte alla rigidità maschile), ma in modo alquanto superficiale e poco curato.

Mirko Lomuscio