Baby gang: recensione

Vero e proprio outsider dell’attuale cinema italiano, Stefano Calvagna prosegue un suo personale discorso legato al mondo delle periferie capitoline, abitate a gran parte da piccoli criminali in vena di voler crescere; una linea cinematografica la sua che recentemente si è sempre più appoggiata ad un sistema produttivo a basso costo, low budget (o “love budget” come a Calvagna stesso piace precisare), dando alla luce titoli come Si Vis Pacem Para Bellum, La fuga e Cattivi e cattivi.

Ultimo della filmografia è ora questo Baby gang (da non confondere con il titolo del 1992 diretto da Salvatore Piscicelli), una pellicola che dire a basso costo è dire poco, dato che lo stesso autore, appoggiandosi su dei principi prettamente pasoliniani (ed una didascalia iniziale ce lo spiega anche bene), decide di affidare l’intera visione a dei giovani protagonisti presi dalla strada e cucire sulle loro fattezze dei caratteri forti, senza alcun utilizzo di uno script vero e proprio, ma fiduciando esclusivamente sull’improvvisazione; insomma delle basi degne del neorealismo che fu, qua riportate affinché ne possa uscire fuori un prodotto che possa dare dell’estremo realismo scenico.

I protagonisti sono due adolescenti della Roma periferica, Marco (Raffaele Sola) e Giorgio (Daniele Lelli), che vivono la propria esistenza tra piccoli crimini e bagordi vari, con la sola ed unica fissa mentale del voler assolutamente svoltare.

Da qui prende piede una spirale di violenza, fatta di scontri fisici e verbali portati agli estremi, accompagnando così la coppia di amici in una strada senza ritorno in mezzo a rapine, furti, truffe e prostituzione minorile.

Senza alcun budget esoso, senza quindi alcuna programmazione produttiva appoggiata da grandi benefici, Calvagna realizza Baby gang tramite la sua poetica totalmente romana, confermando così la propria immagine di cantore del crime cinema più sporco che si possa immaginare e trascinando la macchina da presa in piccoli scorci periferici o nelle auto dei vari personaggi che costellano la visione del film; un metodo questo che entra nell’intimo di ogni singolo carattere qua descritto, cosa molto riuscita e che alla fine dà i suoi buoni frutti, portando nel lungometraggio un’incredibile forza veritiera in ognuno dei protagonisti, sia maschili (oltre ai bravi Sola e Lelli, anche i volti esordienti di Gianluca Barone, Francesco Lisanderelli, Gianmarco Malizia) che femminili (alle attrici in erba Domiziana Mocci, Chiara De Angelis e Giulia Sauro il compito di interpretare la parte incentrata sulla prostituzione minorile), ed affidando inoltre la descrizione del mondo degli adulti circostante a qualche affezionato del suo cinema (oltre allo stesso Calvagna nei panni di uno psichiatra, anche la presenza dei ben rodati Claudio Vanni e Andrea Autullo).

Inoltre il regista de Il lupo non rinuncia ad un pizzico di humour nero, tipico del suo cinema, come in più a qualche parentesi assurda (l’incontro con la concorrente de Il grande fratello, il piccolo riferimento/spogliarello a Beneath the valley of the Ultra-Vixens di Russ Meyer), portando il suo Baby gang su binari meno prevedibili nel suo genere, senza però distaccarsi dalla linea citazionista che guarda al cinema neo-neoreliasta anni ‘80/’90 (come non pensare al Marco Risi di Mery per sempre e Ragazzi fuori qua? O anche al primo Ricky Tognazzi di Ultrà?); chiude il tutto la poetica sonora di Franco Califano (da non dimenticare a riguardo il crepuscolare Non escludo il ritorno con cui Calvagna ha parlato del noto cantautore), che sulle note della sua Tutto il resto è noia conclude la visione di Baby gang, lasciando un tattile ed amaro senso angosciante di mancate speranze e giovani vite spezzate.

E con questo si può parlare di opera riuscita e che colpisce nel segno, un più che buon risultato per un film concepito col minimo indispensabile.

Mirko Lomuscio