Anatar: recensione

C’era un tempo in cui il cinema italiano cavalcava l’onda dei grandi successi yankee, tentando con budget irrisori la strada del cinema, a suo modo, spettacolare e dalle intenzioni che non si discostavano di molto dai loro alti punti di riferimento; questi sono i mockbuster, film che guardano ai kolossal dai budget stratosferici cercando di farne il verso con capitali più esigui, regalando alla fin fine anche le stesse emozioni, o almeno così sperando.

Oggi è una casa di produzione come l’americana Asylum ad arrivare a tanto, la quale fa di un vero marchio di fabbrica la realizzazione di film ultraeconomici fotocopia dei grandi successi da botteghino, e sulla scia di questo spunto bizzarro quanto ammirevole, almeno sotto un certo punto di vista, in Italia arriva nelle sale un titolo che azzarda questo approccio, mirando la propria attenzione sul successo cinematografico per eccellenza Avatar, diretto da James Cameron, di cui ora è imminente il suo annunciatissimo sequel.

E mai occasione quindi è più ghiotta per mostrare ad un certo pubblico questo Anatar, opera folle quanto bizzarra che per l’occasione conia il termine #spaghetti-fi, con una storia che va ben oltre l’immaginazione e l’ilarità; nell’immenso spazio c’è un popolo alieno abitato da esseri somiglianti alle anatre.

Un gruppo di abitanti che con le loro astronavi visitano determinati luoghi, andando in cerca di beni primari per la sopravvivenza; l’intenzione principale è quella di invadere un pianeta di nome Pandoro, luogo popolato da esseri viventi pacifici e inermi, ma la principessa Avia (Azzurra Rocchi), sovrana dei pennuti spaziali e figlia dell’imperatore, decide di assumere le sembianze di questi abitanti con lo scopo di fare una migliore conoscenza di Pandoro, senza arrivare alla guerra.

Qua incontra il giovane pacifico abitante Germano (Raffaele De Vita), il quale le farà vedere di quante cose belle è fatto uil suo pianeta, tra la natura e le bellezze circostanti, lasciando che qualsiasi essere vivente possa trascorrere un’esistenza pacifica; ma c’è chi trama per poter compromettere questo idillio.

Farsi un’idea ben precisa di questo Anatar è cosa a dir poco complicata, anche perché, data la sua natura evidentemente trash, questa operazione che, in fondo in fondo, racchiude delle intenzioni coraggiose merita innanzitutto più di un appoggio da parte di un certo senso critico; vero che stiamo parlando di un qualcosa che, nella sua natura autoironica, sembra non andare oltre lo sketch televisivo, e che, nel suo essere ecologista, si eguaglia ad un qualsiasi spot progresso da tubo catodico, ma c’è da ammettere che, dopotutto, arrivare al 2022 con questa voglia di divertire lo spettatore grazie ad un’idea del genere fa nutrire un piccolo rispetto nei confronti dei suoi autori.

Nonostante la regia sia firmata col famigerato pseudonimo Alan Smithee, utilizzato da registi imprevedibilmente scottati da risultati discutibili delle loro opere, Anatar non è tanto peggio di tanto spettacolo blasonato che gira nelle sale, certo mediocre nell’intero complesso, ma in fin dei conti assolutamente simpatico per come riesce ad assemblare effetti visivi e prostetici da teatrino (in primis persone truccate da anatre umanoidi simil Howard e il destino del mondo), una recitazione demenziale (e tra i nomi abbastanza sconosciuti si cita la presenza del “piccolo” attore Davide Marotta di Phenomena nonché Ciripiri dello spot Kodak) e un risibile plot , che non si può fare a meno di pensare in conclusione che dopotutto, dalle folli premesse, “poteva anche essere peggio di così”, perché tirando le somme il suo titolo di scult trash non glielo toglie nessuno.

Mirko Lomuscio