La ballata di Buster Scruggs: recensione

Un libro che si apre.
Un indice che mostra una raccolta di racconti.
Il primo di essi che dà il nome alla raccolta intera.
Una citazione o descrizione estrapolata e posta all’inizio di ognuno, per dare allo spettatore un pizzico di curiosità, e si comincia.
La ballata di Buster Scruggs inizia come uno dei più noti film del cinema classico americano, il cui unico intento è quello di raccontare una storia, o meglio, una ballata. E chi, per questo incarico, potrebbe far meglio dei due pluripremiati fratelli bardi della storia americana per eccellenza, Joel e Ethan Coen (Il Grande Lebowski, Non è un paese per vecchi, Il Grinta, Ave Cesare)?

Proiettato alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia il 31 agosto 2018, nella quale ha vinto il Premio Osella per la migliore sceneggiatura, per poi essere distribuito sulla piattaforma Netflix dal 26 novembre, il film narra sei storie distinte per quanto riguarda personaggi e storia, ma l’ambientazione western e lo stile narrativo coeniano permeano l’anima di ognuna. Ogni racconto è smarmellato, come direbbero in Boris, ma in senso buono, di cinismo, morti grottesche, lunghi silenzi e finali agrodolci o totalmente pessimisti.
Tale stile è sottolineato dall’accento del Nuovo Messico, che ricorda proprio le note di una canzone, una canzone della quale tutti conoscono il tono.
Il primo racconto, che dà titolo all’intera pellicola, si apre proprio con una ballata, una storia di avventura e di sopravvivenza tipiche del genere, cantata da un sardonico e infallibile criminale ricercato, interpretato da Tim Blake Nelson (Donnie Brasco, Fratello, dove sei?, Lincoln).
Non sarà l’ultima delle canzoni che sentiremo in questo film, come se i fratelli Coen volessero ribadire il loro pseudonimo, o semplicemente perché è proprio questo che sono le storie di frontiera: ballate spensierate che non sempre finiscono bene, ma che di certo trovano un posto nella nostra memoria o nel nostro cuore.

Il secondo racconto è forse quello più coeniano di tutti. Con un inizio che ricorda una delle scene iniziali di Non è un paese per vecchi, un carismatico James Franco (Spider-Man 1-2-3, 127 ore, The Disaster Artist) interpreta un bandito solitario al quale accadono, senza che lui se le cerchi, le più disastrose vicende, dalle quali lui riesce a trovare conforto solo alla fine, col semplice sorriso di una dolce ragazza.


Il terzo racconto è quello in cui si apprezzano di più i silenzi, soprattutto nella seconda metà, e soprattutto perché contrastanti col lungo monologo di un povero attore, interpretato da Harry Melling (Dudley Dursley dei film di Harry Potter), costretto a vendere la sua arte per un misero pasto, accompagnato da un impresario di poche parole, la quale maschera è indossata da Liam Neeson. In esso si ha forse il finale più cinico e privo di significato della serie, ma è proprio per questo che viene apprezzato, per lo meno se si conoscono gli autori.


Il quarto racconto è forse quello che presenta l’unica critica. Non tanto per la storia, la regia o i personaggi, non c’è nulla di sbagliato in quello. Tuttavia i Coen hanno eprso l’occasione di farlo diventare una piccola perla; sarebbe bastato che fosse stato muto. Invece il vecchio cercatore d’oro, interpretato da un instancabile Tom Waits (La leggenda del re pescatore, La tigre e la neve, Parnassus), si perde continuamente in frasi inutili, tendenti a descrivere i suoi pensieri o le azioni compiute e subite. Non sarebbe stato più d’effetto se, a fare da sottofondo alla vicenda, fossero stati i rumori della natura o gli occhi di Tom? Qui il rapporto tra uomo e ambiente al suo stadio più eccelso, come un moderno umano di Rousseau, viene esaltato quasi religiosamente. Appunto, però, sarebbe stato meglio se avesse avuto qualcosa di ancor più primitivo, ovvero l’assenza della parola.


Il quinto e più lungo racconto è invece probabilmente il più ricco di atmosfera e significato. Una storia che respira vero West da ogni parte. Tra lunghi silenzi, sparatorie con gli indiani e speranze di un amore forse impossibile, in venti minuti si costruisce qualcosa che riesce a dare le stesse emozioni che ha saputo offrire Il Grinta.


L’ultima storia è forse la più adatta a un racconto gotico. Non inizia come tale, ma col tempo si sviluppa verso tale genere. Un sarcastico francese, un estroverso cacciatore, una convinta credente, un simpatico inglese e un burbero irlandese sono su una carrozza, e ognuno di loro dice i  suoi pensieri sulla società e in che modo si possono dividere le persone, il tutto mentre un silenzioso cocchiere li guida verso una destinazione sconosciuta Sembra il soggetto perfetto per un piccolo spettacolo teatrale, ed è proprio quel che è, in parte, con un finale forse non del tutto inaspettato, ma pur sempre allegorico.

Forse queste cinque persone simboleggiano i cinque tipi diversi di persona che esistono nel mondo? Dunque i Coen pensano davvero che esistono cinque tipi di esseri umani, anziché una sola come afferma il trapper o due, come dicono tutti gli altri? Sono davvero cinque, le persone nella carrozza? Forse il cocchiere e l’inglese sono la stessa persona, mentre l’irlandese simboleggia l’ennesimo richiamo alla vera natura della vita? O forse è proprio l’inglese la vita, che allieta i poveri attori del già nominato spettacolo con storie lunghe e interessanti, prima dell’ennesima dipartita?


La ballata di Buster Scruggs è proprio quel che sembra: una canzone sul West nel più pulito stile dei fratelli Coen, una poesia in onore di un genere ormai poco mostrato, ma sempre altamente apprezzato. Un’altra piccola zattera autoriale in un mare mainstream guidata da due appassionati fratelli.

 

Andrea De Venuto

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