Pinocchio: recensione

E’ uno dei romanzi italiani più noti nel mondo, riconosciuto in tutta la sua importanza, Le avventure di Pinocchio: storia di un burattino di Carlo Collodi, dal lontano 1881 in cui fu realizzato, stimola ancora la creatività della settima arte, la quale non perde tempo a rendergli omaggi con nuove trasposizioni per il grande schermo, nonostante le innumerevoli realizzate finora; così a memoria, le più celebri rimangono il cartoon Disney datato 1940 e il bellissimo sceneggiato, realizzato quindi per la tv (ma passato anche al cinema), ad opera del nostro Luigi Comencini nel 1972, due esemplari con cui si deve fare i conti qualora si voglia avere a che fare con l’eredità letteraria collodiana.

E nell’ultimo tentativo di portare sui grandi schermi le avventure del noto burattino (mentre siamo in imminente attesa della trasposizione live action della Disney stessa e del cartoon dark di Guillermo Del Toro), Matteo Garrone, reduce dal successo e dagli allori del dramma urbano Dogman, decide quindi di strizzare maggiormente l’occhio al buon Comencini, creando di conseguenza un suo personale Pinocchio, facendo anche largo sfoggio di effetti speciali, checche ne voglia l’odierna cinematografia italiana.

Utilizzando nel ruolo di Geppetto il nostro premio Oscar Roberto Benigni (reo di aver trasposto la fiaba con una produzione colossale di dubbia riuscita nel 2002), il regista di Gomorra affida il proprio lungometraggio sulle giovani spalle del piccolo Federico Ielapi, cui spetta il ruolo del burattino protagonista, e con una particolare visionarietà accompagna lo spettatore nel mezzo delle diverse avventure di questo noto personaggio, dall’incontro con Mangiafuoco (interpretato da Gigi Proietti) a quello terribile con il Gatto (Rocco Papaleo) e la Volpe (Massimo Ceccherini), più l’apparizione del saggio Grillo parlante (Davide Marotta) e l’atroce disavventura nel Paese dei balocchi, al fianco del discolo Lucignolo (Alessio Di Domenicantonio), senza però che la dolce Fata (Marine Vacth) non vegli su Pinocchio, nel bene e nel male.

Già dalle prime immagini, accompagnate da una lieve musica, realizzata dal premio Oscar Dario Marianelli, che riecheggia il magnifico lavoro svolto da Fiorenzo Carpi per lo sceneggiato anni ’70, il Pinocchio di Garrone ci fa tirare un sospiro di sollievo per la felice scelta di voler mischiare fiaba e realtà in un una sola immagine, scandendo questa nota fiaba in un contesto contadino della passata campagna Toscana, elemento che porta solo beneficio al libro di Collodi.

Ma oltre a ciò, il prodotto in questione sembra poi adagiarsi sulla magia degli scritti originari, portando il film verso una narrazione che fa a meno di una gradita enfasi registica e si porta avanti, di minuto in minuto, sfoggiando a fasi alterne qualche idea.

Garrone, in un impeto che lo ha portato a creare di nuovo un fantasy dopo l’operazione (ben accetta) de Il racconto dei racconti, dimentica che l’impronta eccessivamente realistica si trova meglio in altri lidi e crea questa fiaba su fotogramma scrutando i volti dei suoi protagonisti (Benigni sublime, Proietti a tratti inutile, Ceccherini e Papaleo ben in parte, ance se quest’ultimo più sprecato del dovuto), senza curarsi di ritmi e senso dell’immedesimazione per chi ha voglia di un tuffo nella vera e propria fantasia.

Ci troviamo di fronte ad un prodotto realizzato con i degni crismi del kolossal nostrano, con creature in VFX molto belle (il pescecane in primis) e un compendio di trucchi e make up intenzionati a mascherare da animali gran parte del cast, ma è nella ricostruzione scenica che trova degli evidenti limiti, come la recitazione di determinati bambini lasciata molto a se stessa, escludendo l’approccio del piccolo Ielapi che fa da degno anfitrione per tutto questo Pinocchio.

Si poteva fare di più con questa mega produzione italiana, in collaborazione con Francia e Inghilterra, e alla fine tocca accontentarsi della solita teoria che da noi questo tipo di prodotti non vengono realizzati molto spesso, e tanto ci basta senza render conto al totale distacco emotivo qua esibito.

Mirko Lomuscio