La schiava dei Tudor: recensione

La schiava dei Tudor è un romanzo che aspira ad essere storico, ma che per certi versi, non ci riesce del tutto.

Siamo nella prima metà del 1500, e il libro si apre con le vicende drammatiche e piuttosto travagliate di una ragazza poco più che bambina, di nome Dayla.

Viene strappata alla sua terra, l’Africa, per essere venduta come schiava in Inghilterra, insieme ad altri del suo villaggio. Il viaggio che la porterà in Europa viene descritto in maniera dura, violenta, sottolineando quanto sia crudele l’essere umano verso coloro che ritiene inferiori.

Dayla, prima di approdare nella cittadina di Withby, per essere venduta come schiava, a soli quattordici anni, a un tale di nome Lord Jasper, ha perso tutta la propria famiglia, e ha vissuto violenze di ogni tipo. Per questo motivo implorerà il priore, padre Simeon, di accoglierla nel convento, facendola passare per un ragazzo e chiedendogli di scrivere al signore che la reclama una lettera in cui è scritto che la povera schiava purtroppo è morta, in questo modo la fanciulla sarà libera. Padre Simeon, uomo di buon cuore, non può rifiutarsi di aiutare una povera anima bisognosa di aiuto, così Dayla, per molto tempo, vivrà nel monastero sotto le spoglie di Jim, ragazzo orfano, facendo amicizia con Anna e i fratelli De Wilton, in particolare con Masala, che diventerà sempre più importante per lei, al punto che, quando lui scoprirà la vera identità di lei, dichiarerà di esserne innamorato.

I due però non avranno vita semplice. Masala essendo il secondogenito, verrà inviato in convento, mentre Cristof, il fratello maggiore, finirà per diventare cavaliere e per mostrare sempre di più un comportamento egoista e senza scrupoli.

I due ragazzi si ricongiungeranno, non senza superare molti ostacoli, mentre al monastero un frate, Dannis, desideroso di prestigio e potere, cercherà con l’aiuto del vescovo, di spodestare dalla carica di priore padre Simeon, addirittura insegnando la sua morte.

Il romanzo quindi si snoda su più trame e personaggi.

Abbiamo, da un lato la storia di Dayla e Masala, e la loro amicizia che si trasforma in sentimento d’amore profondo. Dall’altro lato c’è l’intreccio politico-religioso e i segreti che gravitano intorno al monastero di Whitby e alla figura di padre Simeon.

Poteva essere un buon romanzo storico, con molti spunti interessanti, però questo libro, a mio parere, pecca di superficialità, liquidando alcune situazioni in maniera frettolosa, senza un approfondimento appropriato.

Sembra che le vicende storiche siano buttate lì, solo per giustificare alcune azioni dei personaggi, che di storico hanno ben poco. Anzi, alcune volte, mi è parso di notare comportamenti descritti in maniera non adatta per una società del XVI secolo.

Le descrizioni poi, lungi dall’essere intriganti, risultano piatte, noiose e rendono frammentaria la lettura, allungando fin troppo le vicende e togliendo pathos.

Il finale poi vorrebbe essere ad effetto, invece, anche qui, sembra tutto affrettato, come se si volesse inserire per forza qualcosa di drammatico e tragico, che dia il senso a tutto il romanzo e lo chiuda idealmente, così come è cominciato.

Come se fin dal principio fosse stato chiaro che non ci sarebbe stato un lieto fine.

Credo che ci siano romanzi storici sicuramente migliori di questo, che di evocativo ha solo il titolo, che c’entra anche poco con la trama, i Tudor vengono citati solo in due o tre punti e non hanno a che vedere con il personaggio di Dayla, tanto per essere precisi, quindi perché mettere un titolo del genere se risulta forviante?

Assolutamente sconsigliato.

 

Samanta Crespi

© Riproduzione Riservata