Impercettibili presenze

Che lei fosse una puttana era ormai appurato; eppure io, cocciuto che ero, continuavo ad andarle dietro. La spiavo; la fissavo; la costringevo ad abbassare lo sguardo per prima quando l’incontravo per le scale. Come si fa nei peggiori bar di Caracas, mi ubriacavo e poi passavo notti insonni, a pensare a lei. Io ero lì, lei era poco distante, ma mai una volta che succedesse qualcosa. E comunque, che nel suo appartamento ci fosse un continuo viavai, era evidente. Uomini seri e risoluti, vecchi e giovani indistintamente, che si allontanavano furtivi e nemmeno salutavano.

Aveva un sorriso languido e uno sguardo aperto che si allargava sugli occhi furbi. Strano modo di descriverla, ma penso che la bellezza più vera sia proprio quella di una donna che ne è inconsapevole. E con me, non si faceva di certo troppi problemi, di questo dovrei almeno rallegrarmi. Non la mettevo in soggezione. L’avevo vista con gli occhiali da vista e i capelli raccolti, mentre tornava dalla spesa coi sacchetti in mano. Oppure in jeans e maglione, quando usciva a portare il cane. Era il momento in cui mi piaceva di più, perché era se stessa. Non era artefatta, e sembrava una ragazza qualunque. Quei boccoli biondi, cotonati e pieni di lacca che talvolta facevano la loro comparsa, mi inquietavano. Gli occhi truccati, la bocca vermiglio di alcune sere mi ferivano, perché era come se potessi leggere dentro di lei. Capivo che non avrebbe voluto fare quella vita. Lei era la ragazza con la coda di cavallo e le occhiaie scure che vedevo scendere col cane. Un peccato che talvolta perdesse di vista questo suo modo di essere, e che si presentasse tutta agghindata. Non più se stessa.

Era una ragazza semplice, lo sapevo, ma la vita l’aveva messa a dura prova. Anche lei ordinava la pizza, qualche volta, solo che il ragazzo che gliela portava scendeva anche dopo mezz’ora o quaranta minuti. Parcheggiava lo scooter proprio sotto alla mia finestra, quindi non dovevo nemmeno stare più di tanto attento. Faceva un tale baccano, quando poi metteva in moto, che lo sentivo, quando se ne andava. Allora immaginavo una storia d’amore fra lei e il ragazzo delle pizze, e bevevo ancora di più. Incapace di decidermi: da una parte ero contento per lei, perché finalmente frequentava un ragazzo della sua età, ma quel ragazzo non ero io. E allora giù, a struggermi fino all’angoscia più nera.

E così, ogni tanto mi facevo trovare sulle scale, quando sapevo che lei rincasava col cane. Solitamente lo faceva dopo un’ora che era uscita con lui al guinzaglio, e sempre verso le cinque di pomeriggio. Gli faceva fare una bella passeggiata. Il giro dell’isolato, come minimo, visto che tornava col viso arrossato e la bestiola che ansimava di brutto. Un giorno finsi di leggere un libro e, quando lei mi passò di fianco, feci per alzarmi e farla passare. Mi disse di stare comodo, in un italiano un po’ stentato, soprattutto perché aveva uno strano accento. Si fermò un istante, a guardare la copertina del mio libro. Poi sorrise. Aveva un bel sorriso: denti bianchi.

«Frankenstein», disse. Era compiaciuta.

«Lo sai che l’ha scritto una donna?»

Non parlava male. Solo l’accento era strano. Romena, moldava… non ho ben chiaro la differenza. Comunque parlava come il ragazzo che vende i fiori al semaforo, che tutti definiscono, in maniera generica, il ragazzo dell’est. Rimanere sul vago a volte aiuta a non sbagliare.

«Lo ha scritto Mary Shelley», risposi con un fil di voce.

Lei mi guardò negli occhi, ed annuì.

«Era la moglie del poeta Shelley – continuò con quel suo accento strambo – Nessuno credeva che lo avesse scritto lei. Nell’Ottocento le donne non avevano troppo successo. E pensare che lo ha scritto in una villa di Roma, dove lei, il marito e altri amici si erano riuniti, in una notte di tempesta, a scrivere racconti che avrebbero dovuto far paura. In una sorta di gara, volevano spaventarsi l’un l’altro.»

Si fece seria e abbassò gli occhi, a guardarsi le scarpe.

«A me però non ha mai fatto paura. Sono triste per lui. Nessuno dovrebbe dare la vita a una creatura per condannarla alla solitudine.»

Anche se in breve e forse malamente, aveva detto tutto quello che io avevo sempre pensato su quel romanzo. Quella ragazza, che provava pena per la Cosa creata a tavolino dall’arrogante dottor Frankenstein, sapeva tante cose. Sicuramente aveva studiato. Un vero peccato che si intrattenesse con quegli uomini, vecchi e grassi, che la sera la raggiungevano a turno nel suo appartamento. Il ragazzo delle pizze doveva mettere fine a quello scempio, doveva portarla via. Ero disposto anche a sacrificarmi. Ad eclissarmi fino a sparire.

Col tempo, avevo cominciato a farmene una ragione. Magari perché ho solo sedici anni e avevo capito che con lei non c’era trippa per gatti, come si suol dire. La parola brutta, con cui l’ho appellata all’inizio, l’ho sentita da papà e da altri condomini. Noi abitiamo al piano rialzato, dove c’è la portineria, perché i miei genitori sono i portieri dello stabile. Mia mamma aveva sempre da ridire, con quegli uomini che andavano e venivano, e talvolta accendevano le sigarette per le scale, incuranti che ci sia divieto di fumo. E poi si lamentava del cane, perché sporcava i pavimenti con le zampe infangate. Papà invece la guardava ammirato, pure lui. E poi, come la volpe che non può arrivare all’uva, diceva che qualcuno avrebbe dovuto rispedirla al suo paese.

E infatti, qualcuno ce l’ha mandata, un giorno. A dire il vero, è successo di notte. C’è stato un gran trambusto, e sono arrivate anche due macchine della polizia. Sono andati su senza chiamare nessuno, e l’hanno portata via. Io ero in camera e facevo finta di dormire. Vedevo i lampeggianti dalla finestra, sentivo delle voci e gente che saliva e scendeva dalle scale. Ho fatto appena in tempo a vedere la sua sagoma bionda, fasciata in un piumino rosso, mentre un agente in divisa la faceva salire sul sedile posteriore di una delle due volanti. Mi sono scese le lacrime, ma non volevo che qualcuno si accorgesse che ero innamorato di lei e che mi dispiaceva.

I miei nemmeno sono entrati, in camera mia. Non si sono accorti di niente. Mai.

Tempo dopo, da discorsi fra condomini ho saputo che qualcuno aveva fatto la spia e aveva chiamato le forze dell’ordine. Lei era senza permesso di soggiorno, e questa persona lo sapeva.

Rimpatriata in fretta e furia in Romania, questa era stata la sua sorte.

Il mattino seguente la “retata”, una domenica, stavo uscendo per andare a prendere i cornetti con la crema alla pasticceria dell’angolo, quando ho visto il ragazzo delle pizze. È salito ed è sceso poco dopo, col cane di lei al guinzaglio. Per tutta la notte, quella povera bestia, aveva abbaiato.

Il ragazzo delle pizze doveva essere più intimo di quanto pensassi. Aveva la sua chiave, e stava portando via il suo cane. Quest’ultimo era di piccola taglia e, una volta allo scooter, lo aveva fatto entrare in un trasportino di plastica che poi aveva fissato dietro con delle code, dove solitamente stava il cassone per le pizze.

Quando gli passai davanti, non potei fare a meno di chiedergli se se ne sarebbe occupato lui.

«Il cane di Alina adesso è mio», mi aveva risposto, forse un po’ meravigliato che io gli avessi rivolto la parola.

Alina. Era quello il suo nome.

E fu così che mi feci da parte, una volta per tutte. I condomini non ebbero più da lamentarsi per il rumore di gente che andava e veniva; mia madre di cani che sporcavano il pavimento; mio padre di una ragazza che lo eccitava e che non poteva avere.

Forse quella telefonata alla polizia l’aveva fatta lui, o forse no. Non lo saprò mai, perché lui se ne guarderà sempre bene dal rivelare particolari scomodi a mia madre.

C’è un dubbio, però, che posso sciogliere. Almeno quello, sì.

Di cosa mai mi ubriacavo, data la mia giovane età?

Ebbene, di Coca-Cola.

Rende frizzante la vita, anche quando non si è protagonista di niente.

 

Cristina Biolcati per Upside Down Magazine

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