Guarda in alto: recensione

Ai salti di fantasia e visite in mondi immaginari il nostro cinema italiano non è mai stato abituato, tant’è che quando capita di avere a che fare con un qualche nostra opera che volge il proprio sguardo verso fronti immaginifici ecco che tutto ci sembra molto più “strano”, perché non siamo abituati a tutto ciò in quanto spettatori italioti; il giovane Fulvio Risuleo quindi, tanto per diversificarsi nel nostro panorama ma anche perché spinto da una forte vena creativa, esordisce su grande schermo portando al cinema questo suo Guarda in alto, un racconto di crescita (e viceversa) ambientato in una serie di ambienti a noi familiari, come i tetti dei palazzi, ma rivisitati con l’occhio di un autore che ha voglia di andare oltre il semplice utilizzo della risata o del dramma dalla lacrima facile tipici del nostro panorama cinematografico.

Utilizzando per protagonista il Giacomo Ferrara di Suburra (dove interpretava il piccolo delinquente Spadino), Guarda in alto narra la vicenda del giovane fornaio Teco, il quale, durante un momento di pausa, comincia ad intraprendere una lunga avventura ad alta quota, camminando fra i tetti e scoprendo mondi e personaggi da lui mai conosciuti; gabbiani meccanici manovrati dalle suore, bambini a caccia di reliquie, un apicoltore eremita, paracadutiste perdute, questi sono alcuni degli elementi che Teco scoprirà passeggiando fra le terrazze dei condomini circostanti, intraprendendo così un viaggio di formazione che lo porterà dove la sua immaginazione sarà più ben accetta.

Piccolo prodotto presentato all’evento Alice nella città della Festa del Cinema di Roma, Guarda in alto è un singolare lungometraggio che tenta di diversificarsi da tutto quello che ormai ha fossilizzato il nostro cinema, come quegli sguardi registici degni di una fiction o, all’opposto, estri autoriali troppo megalomani; il film di Risuleo è un concentrato di sincerità visionaria e voglia di cercare una filosofia esistenziale, viaggiando nei meandri di un universo ricco di grandi trovate degne di nota, quali sono ad esempio il mondo dei bambini e il microcosmo in cui vive l’anziano apicoltore Baobab interpretato da Lou Castel.

Tutto aleggia tra il cinema di Jean-Pierre Jeunet e Michel Gondry qua, alla ricerca di una propria cifra stilistica che comunque non fa a meno della propria natura italiana; non una nota deleteria, anzi, tale dettaglio incentiva il nostro panorama di un nuovo sguardo da tenere d’occhio, cioè quello di Risuleo, che ha giusto il difetto di mostrare un certo autocompiacimento nel narrare questa favoletta moderna (la scena ambientata durante il concerto è rea di palesare tale difetto).

Altro piccolo limite è l’utilizzo dello stralunato Teco di un calibrato Ferrara, mostrato con look esagerato (ciuffo laccato e basette lunghe ben in vista) ma mai abbastanza approfondito per poterlo far immedesimare con lo sguardo dello spettatore qualunque; comunque sia Guarda in alto il suo concetto di crescita esistenziale lo mostra tutto, elogiando la fantasia e la voglia di tornare bambini nel modo più consono alla sua immaginazione.

E’ un film “strano” quello di Risuleo, ma quello “strano” che farebbe molto bene al nostro cinema italiano.

Mirko Lomuscio