Gli anni più belli: recensione

Dopo una lunga carriera trascorsa al cospetto di Hollywood, dove lo si è visto trionfare grazie a pellicole come La ricerca della felicità e Sette anime, Gabriele Muccino è ormai da qualche tempo tornato nella sua natia Italia, avendo realizzato negli ultimi anni i titoli L’estate addosso e A casa tutti bene, radicandosi così ad argomenti a lui cari come la crescita e il rapporto tra conoscenti, che siano amici per la pelle o semplici familiari.

All’appello della sua lunga filmografia, cominciata nel 1998 con il frizzante Ecco fatto e poi proseguita con i confermati Come te nessuno mai e L’ultimo bacio, mancava un lungometraggio che potesse percorrere decadi generazionali, in modo da poter descrivere con una sola trama sia l’evoluzione di un’amicizia che la trasformazione di un paese nel corso di anni che passano; questa occasione arriva col qui presente Gli anni più belli, ovvero una risposta prettamente mucciniana all’eredità lasciata dall’epocale C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, e per protagonisti troviamo un poker di nostri astri della recitazione quali sono Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria (due sodali del cinema di Muccino), Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti.

Loro sono nell’ordine Giulio, Riccardo, Paolo e Gemma, quattro amici per la pelle che consolideranno un sodalizio stretto sin dai primi anni ’80, tra i banchi di scuola; da quell’istante in cui si sono conosciuti la vita decide di farli giocare col destino, creando tra loro amori e tradimenti, regalando a qualcuno una vita professionale soddisfacente oppure dando a qualcun’altro una disastrosa esistenza, con la possibilità però di riscattarsi nel tempo, ritrovando magari quel sodalizio che da tempo si era andato a sfumare.

Voglioso di voler creare un proprio “romanzo popolare”, ma guardando al contempo alcuni echi da “romanzo criminale” (il medesimo trio di uomini protagonisti fu nella pellicola sulla banda della Magliana firmata nel 2005 da Michele Placido), Muccino con Gli anni più belli si sbizzarrisce a ricreare e ricordare epoche passate da trent’anni ad ora, giocherellando con utilizzo di hit musicali annesse e di eventi che hanno caratterizzati momenti turbolenti del nostro paese e non (Tangentopoli, 11 settembre); certo, fatto sta che l’operazione non campa su una base proprio originale, nonostante gli evidenti rimandi al capolavoro di Scola succitato, ed in più il nostro regista per una buona prima mezz’ora abusa fin troppo del suo linguaggio cinematografico fatto di interpretazioni urlate e musica straziante.

Poi con l’avanzare della visione Gli anni più belli uniforma le sue intenzioni citazioniste, crea una sequela di vicende esistenziali attorno ai suoi tre protagonisti (dei funzionali Rossi Stuart, Santamaria, Favino e Ramazzotti, anche piallati in volto dalla CGI quando si tratta di ringiovanirli) e aggiunge facce guest che riempiono la produzione della pellicola (la cantante Emma Marrone nei panni della moglie di Riccardo, Nicoletta Romanoff in quelli della consorte di Giulio), cercando così di regalare allo spettatore una sorta di kolossal tutto italiano, ma purtroppo senza motivare abbastanza l’operazione di fondo che smuove la creazione di questo titolo.

Lungometraggio fiume della durata di più di due ore, questo titolo di Muccino non è tra le migliori cose dell’autore di Baciami ancora, ma un suo perché, seppur lieve, lo si trova, differenziandosi a suo modo da una qualsiasi fiction televisiva, proprio a voler vedere il bicchiere mezzo pieno.

Mirko Lomuscio