Darkest Dungeon: recensione

Cosa succederebbe se gli orrori cosmici dell’unvierso lovecratiano incontrassero un’atmosfera gotica medievale?

Darkest Dungeon è un rpg chiaramente ispirato alle meccaniche di gioco di Dungeons and Dragons. I combattimenti si svolgono a turni e vi sono colpi critici e non, come se una persona giocasse davvero con il set di dadi del gioco di ruolo. La trama parla di un individuo (il giocatore) discendente di un uomo che a causa della noia e della curiosità, risvegliò antichi orrori dormienti nel sottosuolo, facendoli fuoriuscire dall’abisso. Il nostro scopo è riconquistare il terreno della nostra tenuta, liberandolo dai mostri orribili che lo infestano.

La grafica del gioco è a tratti grottesca, ricorda in parte lo stile dei primi albi di Hellboy. Ciò da un tono quasi fumettistico alla storia. Avremmo inoltre diverse citazioni alle opere lovecraftiane, come gli Shoggoth, Cthulhu e gli uomini pesce servi di Dagon. L’epoca storica non è ben definita, in quanto abbiamo sia armature medievali che costumi settecenteschi.

Interessante è il modo in cui i personaggi reagiscono agli eventi, subendo veri e propri danni psicologici, oltre che fisici, e necessitando di cure per superarli. Se i personaggi raggiungono un alto livello di stress, rischiano di morire d’infarto. Fate attenzione alle varie malattie mentali, in quanto potrebbero rendere i personaggi non solo dannosi per il gruppo, ma anche per loro stessi.

Darkest Dungeon non è un gioco facile: la mortalità è molto alta e ci sono poche risorse per soddisfare cure mediche, potenziamenti e sviluppi urbani. Ciò è anche il lato negativo del gioco, in quanto spingerebbe il giocatore ad uscire dalle missioni per evitare di morire.

Piccola nota va all’espansione The crimson court, che ha introdotto una figura alquanto originale sul mito del vampiro: le creature sono infatti ibridi umano/zanzara e chi più di questi insetti è  adatto a succhiare il sangue?

In conclusione, non è un gioco adatto a tutti, solo ai videogiocatori masochisti ed amanti dell’horror.

 

Debora Parisi

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