Come la prima volta: recensione

“Amore, perché mi hai regalato una torcia?”
“Perché se tu perdi nella memoria potrai trovarmi anche di notte”


Questo è il primo dialogo che ci viene presentato, con due anziani nudi, al buio, ad illuminarli due semplici torce elettriche maneggiate da loro stessi. Un inizio forse onirico ma altamente significativo, che immette subito nello spettatore le sensazioni che proverà nella visione di questi venti minuti di pellicola.
Come la prima volta è il corto italiano presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia, scritto e diretto dalla regista Emanuela Mascherini, nella terza edizione di I Love Gai (Giovani Autori Italiani).

Il fotografo Oscar si reca ogni singolo giorno all’ospedale dove è ricoverata sua moglie Beatrice, malata di Alzaheimer. Egli utilizza l’oggetto del suo mestiere, le fotografie, sia fisiche che digitali, per raccontare a sua moglie la loro vita passata, cercando di farle riaffiorare i ricordi.
In un crescendo di malinconia e rassegnazione, dopo che la sua unica fonte di speranza gli viene rubata, proprio come la memoria è stata tolta a Beatrice, Oscar cerca di catturare il passato tramite gli odori, le registrazioni, qualsiasi cosa gli faccia rivivere i momenti come la prima volta.

Come la prima volta – dice la regista –  conclude il percorso di ricerca che ho iniziato con i due lavori precedenti: NEROFUORI e OFFLINE. In entrambi ho cercato di raccontare delle solitudini che si sfioravano senza realmente incontrarsi mai. Ho raccontato “amori fluidi” o “non amori” molto contemporanei. In questo lavoro cercato di lavorare per opposizione, di esplorare un rapporto, una qualità di amore dal sapore antico che travalicasse il tempo e lo spazio, che andasse oltre i limiti della ragione e soprattutto della memoria.

Tratto da una storia vera e probabilmente tremendamente personale, il film riesce a intrecciare ricordo e realtà, passato e presente, in un susseguirsi di immagini e sequenze. Tristezza, compassione, speranza e accettazione. Il tema dell’Alzaheimer viene trattato in maniera matura e cruda, con inquadrature lunghe e silenziose, nei quali i dialoghi sono lasciati al minimo, e dominano le musiche lente e i rumori.

Un cortometraggio difficile da digerire e che, per il meglio, sembra durare un’eternità, il tempo di una vita ormai sottratto alla mente di una povera donna, con un finale che anziché illudere il pubblico con un lieto fine, lo lascia assuefatto e trasportato da una storia realistica e magnificamente diretta.

Andrea De Venuto

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