Cetto c’è senzadubbiamente: recensione

Nonostante l’assurdità di fondo che depone la sua atroce filosofia di vita, a molti deve essere mancato per lungo tempo la presenza di Cetto La Qualunque, orribile politicante del sud Italia, creato ed interpretato da Antonio Albanese, che ha lasciato un segno nel cinema nostrano, innalzando un mondo satirico che molto rispecchia la realtà della penisola a stivale; per la regia di Giulio Manfredonia tutto cominciò nel 2011 con Qualunquemente, per poi proseguire l’anno seguente col sequel, diviso in tre episodi intersecati, Tutto tutto niente niente, dove Albanese stesso triplicò la propria presenza ricoprendo altri due ruoli oltre il suddetto Cetto (il proto leghista Rodolfo Favaretto e il dj Frengo Stoppato).

A ben sette anni da quell’ultimo exploit sui grandi schermi, il succitato La Qualunque irrompe di nuovo in una pellicola tutta sua, facendo il punto su dove eravamo rimasti e guardando all’attualità politica mettendo in mezzo una parola come monarchia ma contestualizzata in Italia (ogni riferimento ai Savoia è del tutto casuale, forse); con un minaccioso titolo che troneggia Cetto c’è senzadubbiamente, in questa terza pellicola, sempre diretta da Manfredonia, troviamo il personaggio interpretato da Albanese alle prese con un’esistenza in terre tedesche, dove si è fatto una nuova famiglia assieme alla bella Petra (Caterina Shulha) e lasciandosi alle spalle la ex moglie Carmen (Lorenza Indovina) più il figlio Melo (Davide Giordano).

Nonostante lui non abbia più alcuna ambizione politica, ben presto Cetto viene costretto a tornare nel sud Italia, facendo una scoperta sconvolgente, ovvero che suo padre in verità era un sovrano appartenente alla dinastia dei Borbone.

Sostenuto da un nutrito gruppo di aristocratici, guidati dal rispettato Venanzio (Gianfelice Imparato), La Qualunque decide di riportare la monarchia in Italia, riscoprendo in sé quella vena dirompente che lo ha trasformato nel discutibile uomo di politica quale è stato, tragicomiche conseguenze comprese.

Lasciandosi alle spalle qualsiasi divertente riferimento alle idee berlusconiane o salviniane del caso (ma senza che queste non facciano almeno una capatina di tanto in tanto), Albanese riporta uno dei suoi cavalli di battaglia cinematografici chiudendo così una trilogia che possa portare il peggio dell’ideologia attuale, strappandoci così più di una risata amara.

Con Cetto c’è senzadubbiamente ci troviamo quindi di fronte ad un film compiuto nel suo essere esagerato e sempre ben accetto nello sfottere determinati personaggi, mettendo alla berlina il concetto di sovranismo che ormai serpeggia nell’aria da qualche anno dalle nostre parti.

Il buon Albanese si appoggia sui soliti tormentoni del suo La Qualunque, senza però rendersi insopportabile, e con Manfredonia accanto, più il supporto dello sceneggiatore Pietro Guerrera, abbozza un universo sempre più bizzarro facente parte di questo controverso mondo attuale, dove chi delinque è visto ancora con occhio benevolo, nonostante le conseguenze.

In mezzo a tutto ciò getta nel calderone le vecchie presenze della Indovina (stavolta Carmen è una monaca di clausura) e di Giordano (il giovane Melo è un sindaco all’avanguardia, fino a quando non riappare suo padre), ed in più sbeffeggia il ricco mondo degli aristocratici, inquadrando una comicità a tratti fantozziana e con esiti sempre ben accetti.

Unica nota stonata è che tutto questo ridere porta ad uno svolgimento a dir poco anarchico, che chiude le danze con un finale visibilmente tronco, reo di mostrare il punto debole di non sapere come concludere Cetto c’è senzadubbiamente; ma nonostante questo, il terzo film dedicato al più terribile dei nostri politicanti è un’opera che diverte “assai”, sollazzando degnamente per tutta la sua “onestissima” durata di novanta minuti.

Mirko Lomuscio