C’è tempo: recensione

Personaggio politico noto a tutto tondo, data la sua attività di sindaco di Roma negli anni passati e il profilo di leader del PD portato avanti nel tempo, Walter Veltroni è sempre stato una figura che non ha mai nascosto le sue velleità artistiche nei riguardi del cinema, avendo lui stesso studiato in gioventù all’Istituto Cinematografico e Televisivo Roberto Rossellini ed intraprendendo quindi in tempi recenti anche un percorso professionale in quanto regista; è cominciato tutto nel 2014, con la realizzazione di Quando c’era Berlinguer, per poi proseguire con altri titoli come I bambini sanno, Milano 2015 e Indizi di felicità.

Non gli era mai capitato di esordire nella fiction, seppur nel 2007 la cosa lo sfiorò dato che da un suo libro è stato tratto il film Piano solo con Kim Rossi Stuart, ed ora, dopo molta attesa, ecco che il buon Veltroni mette mano ad un film tutto suo, cercando di portare in scena una storia di crescita emotiva che gli è tanto cara, stando alle prime indiscrezioni.

Grazie a C’è tempo assistiamo quindi all’incontro tra due personalità agli antipodi, come il precario Stefano (interpretato dal voluminoso Stefano Fresi), il quale di professione fa “l’ osservatore di arcobaleni”, e il piccolo Giovanni (Giovanni Fuoco), un tredicenne di buona famiglia che di punto in bianco si ritrova senza genitori, perché morti accidentalmente; la causa che li farà incrociare è che entrambi vengono dallo stesso padre, quindi al primo, con un matrimonio infelice alle spalle e tanti debiti da estinguere, non spetterà altro che prendersi cura del bambino sotto lauto compenso, partendo dal paesino dove vive fino ad arrivare a Roma per prelevare Giovanni.

I due da subito non vanno d’accordo, intraprendendo così un viaggio di ritorno ricco di sfaccettature negative e drastici scambi di opinioni; ma la strada è lunga e tra la coppia di neo fratelli ci sarà tempo di scoprire più cose l’uno dall’altro.

Politico con l’amore per il cinema nelle vene, Veltroni con la sua opera prima intende innanzitutto omaggiare tutto ciò che lo ha formato in quanto amante della settima arte, gettando nella visione di C’è tempo quanto di più possibile da poter ammiccare, di minuto in minuto; dettagli microscopici, come la pistola rossa a pois di Dillinger è morto e la padella forata de La grande guerra, oppure veri e propri richiami a titoli immortali come I 400 colpi di Francois Truffaut e Novecento di Bernardo Betolucci, tutto intriso in quel senso di libertà anarchica nella narrazione tipica della Nouvelle vague, tra una battuta di Fresi e gratuiti momenti di poesia.

Certo, l’intenzione di Veltroni era innanzitutto questa, fare un’opera calderone dei suoi ricordi da cinefilo, ma purtroppo C’è tempo è soprattutto un film da proporre con una storia tutta sua, e vederlo divenire, istante per istante, un mero divertissement per intenditori di cinema dà i suoi negativi frutti; per non parlare di come freneticamente lo sconclusionato script , steso dal regista stesso assieme a Doriana Leondeff, getti argomenti e personaggi alla rinfusa, senza una logica da seguire.

L’incontro con la cantante interpretata da Sinoma Molinari, quello con l’anziana madre malata di Alzheimer ricoperta da Laura Ephrikian, l’inutile scenetta comica tra Fresi e Sergio Pierattini oppure quella con il carabiniere di Max Tortora, la parentesi dedicata al lesbismo, e così via, tutte situazioni che dovrebbero arricchire la linea on the road che sta alla base di C’è tempo e che invece risultano soltanto essere mere situazioni a se stanti, le quali si allontanano anni luce dalla storia base del film, ovvero l’incontro tra Stefano e il piccolo (ed antipatico) Giovanni.

Un lungometraggio che sa di sfizio fine a se stesso e che Veltroni non può far altro di rendersene fiero per il solo motivo di aver coinvolto anche il mitico Jean-Pierre Léaud, il quale appare nell’unico momento di una certa poesia presente nell’opera; un momento di soli cinque minuti che non può salvare tutto il resto di questo ennesimo raffazzonato film italiano.

Mirko Lomuscio